RASSEGNA STAMPA

IL PREAVVISO

Qualsiasi lavoratore che decida di rassegnare le dimissioni, deve prestare attenzione al preavviso, ovvero quell’arco temporale che va dall’invio telematico alla risoluzione vera e propria del contratto. Se questo arco temporale non viene rispettato, il dipendente dovrà farsi carico di una indennità sostitutiva che, in determinati casi, può anche superare l’importo di uno stipendio. Questo può avvenire anche nel caso in cui il lavoratore, dopo aver rassegnato le dimissioni, smetta di andare al lavoro. La regola prevede, infatti, che il periodo di preavviso debba essere lavorato. Il periodo di preavviso è stato introdotto come tutela per il datore di lavoro affinché egli abbia il tempo necessario ad adeguarsi all’uscita del dipendente e trovare un suo sostituto. In questo arco temporale l’azienda deve poter contare sull’apporto del lavoratore uscente a meno che egli non si faccia carico dell’indennità riconosciuta a titolo risarcitorio. La stessa forma di tutela vale per il lavoratore: in caso di licenziamento, il datore di lavoro deve osservare un periodo di preavviso la cui durata è la stessa prevista per le dimissioni. Ci sono, ovviamente, dei casi in cui la tutela delle parti viene meno. Ad esempio, quando le parti sono colpevoli di un comportamento o omissione che rende impossibile continuare il rapporto di lavoro. Non è obbligatorio osservare il periodo di preavviso quando si rassegnano le dimissioni per giusta causa. Ci sono delle circostanze, infatti, che giustificano il lavoratore che non rispetta il preavviso di dimissioni. A partire dal 12 marzo 2016, come previsto dal Jobs Act, le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del contratto di lavoro vanno effettuate in maniera telematica. I lavoratori con figli minori di tre anni sono esonerati dall’obbligo delle dimissioni online: essi dovranno comunicare il preavviso inviando una lettera di dimissioni al datore di lavoro, dimissioni che verranno convalidate dall’ispettorato territoriale del lavoro. Il nostro ordinamento consente al dipendente di presentare le dimissioni senza giustificarne il motivo: l’importante è, quindi, rispettare il periodo di preavviso diversamente dal licenziamento da quanto avviene per il datore di lavoro che è obbligato, invece, a rispettare le condizioni fissate dalla legge. Nella maggior parte dei Ccnl viene stabilito che il periodo di preavviso decorre dal 1° al 16° giorno di ogni mese. Se il dipendente dimissionario invia la comunicazione in un momento diverso, il calcolo della data termine del rapporto di lavoro inizia nel momento di decorrenza più prossimo. Il numero di giorni di preavviso da rispettare in caso di dimissioni dipende da diversi fattori ma in particolar modo influiscono la tipologia di contratto di lavoro, il livello di inquadramento, l’anzianità di servizio e la qualifica del lavoratore. Questi ultimi hanno un ruolo fondamentale nel caso di contratto a tempo indeterminato. Generalmente i tempi di preavviso variano dai 4 giorni in caso di contratto part-time con due anni di anzianità fino ad arrivare ai 15 giorni in caso di contratto full-time con almeno cinque anni di anzianità presso lo stesso datore di lavoro. Nella durata del preavviso si tiene conto di tutti i giorni di calendario, compresi quelli non lavorativi. Tra i giorni di preavviso non vengono, invece, conteggiati eventuali giorni di assenza del lavoratore per malattia, infortunio, ferie, maternità e congedi vari. Il periodo di preavviso riparte, quindi, dal giorno di rientro del lavoratore. Nel caso in cui il lavoratore non rispetti il periodo di preavviso previsto dalla legge, il datore di lavoro ha diritto a richiedere una indennità di mancato preavviso, ovvero un importo delle retribuzioni che sarebbero spettate per il periodo di preavviso non lavorato come stabilito dall’articolo 2118 del codice civile. Pensiamo, ad esempio, ad un lavoratore che dovrebbe dare preavviso di 30 giorni e non lo fa: al momento della liquidazione delle ultime competenze li verrà sottratto un importo pari allo stipendio che sarebbe stato percepito se quei 30 giorni fossero stati lavorati. Nel contratto a tempo determinato non è previsto il recesso anticipato e di conseguenza, non è previsto neanche il preavviso. Il rapporto di lavoro può concludersi prima del preavviso di dimissioni solo in caso di accordo di entrambe le parti o per recesso per giusta causa, ai sensi dell’art 2119 del codice civile. Il preavviso non è dovuto neppure per il recesso di un contratto a progetto, di uno stage o per la fine di una collaborazione coordinata continuativa. In caso di dimissioni per giusta causa non è dovuto nessun preavviso e quindi l’effetto del licenziamento è immediato. Non è previsto il preavviso anche per la lavoratrice che rassegna le dimissioni nel periodo di maternità, ovvero nel momento in cui viene a conoscenza della gravidanza fino al compimento dell’anno di vita del figlio. Non c’è obbligo di preavviso, né per l’azienda né per il lavoratore, nel caso di dimissioni rassegnate durante il periodo di prova. È facoltà del datore di lavoro rinunciare al preavviso di dimissioni consentendo al lavoratore di cambiare subito lavoro previa sottoscrizione di un accordo scritto da ambo le parti. Il periodo di preavviso viene trattato al pari degli altri giorni lavorativi, per cui il lavoratore ha diritto alla normale retribuzione. Durante il periodo di preavviso si continuano a maturare ferie, Tfr e tredicesima che saranno riconosciute alla fine del rapporto di lavoro.

NASPI

L’indennità di disoccupazione Naspi è una indennità riconosciuta a chi perde il lavoro a cause non imputabili a lui. Tuttavia per averne diritto bisogna aver lavorato per un certo numero di giorni. Fino a qualche anno fa per la valutazione del diritto alla Naspi, si guardava sia alle settimane contributive maturate nel quadriennio che ani giorni effettivi di lavoro nell’anno che procede la disoccupazione. Con la legge di Bilancio 2022 quest’ultimo requisito è stato sospeso. Oggi, l’unico requisito ai fini della Naspi è di natura contributiva: sono necessarie 13 settimane di contribuzione maturate nei 4 anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione. C’è una grande differenza tra settimane di contribuzione e settimane di lavoro. Affinché avvenga il riconoscimento di una settimana di contributi è necessario aver raggiunto il minimale contributivo: l’accredito scatta solo quando la retribuzione settimanale percepita è pari al 40% del trattamento minimo di pensione in vigore al 1° gennaio dell’anno di riferimento. Sono validi ai fini del perfezionamento del suddetto requisito non solo i contributi previdenziali, comprensivi di quota contro la disoccupazione versati durante il rapporto di lavoro subordinato ma anche: – i contributi figurativi accreditati per maternità obbligatoria, – contributi figurativi accreditati per i periodo di congedo parentale, – i periodi di lavoro all’estero in paesi comunitari o convenzionati dove è prevista la possibilità di totalizzazione, – i periodi di astensione dal lavoro per malattia dei figli fino agli otto anni. Se il lavoratore ha periodi in cui è stato occupato nel settore agricolo, questi possono essere cumulati per ottenere l’indennità Naspi. Considerate, quindi, le dovute eccezioni si può affermare che l’indennità Naspi spetta dopo 13 settimane di lavoro. Queste non devono essere necessariamente continuative poiché si tiene conto di tutti gli ultimi quattro anni. Lo stesso vale nell’ipotesi in cui ci siano le 13 settimane contributive ma si viene meno al requisito della perdita involontaria del lavoro perché, ad esempio, ci si è dimessi. In questo caso basterà anche una sola settimana successiva contributiva per avere diritto alla Naspi.  

PERMESSI 104

La legge n.104 del 1992 riconosce il diritto a 3 giorni di permesso per coloro che si occupano di un familiare con grave disabilità. Per ogni disabile da assistere vengono riconosciuti 3 giorni di permesso retribuiti ogni mese. A partire dal 13 agosto 2022, data dell’entrata in vigore del d.lgs. 105 del 2022, viene meno la figura del referente unico quindi possono usufruirne alternativamente più familiari a patto di non superare il limite di 3 giorni ogni mese. Lo stesso vale anche per il congedo straordinario di 2 anni. Tuttavia se un lavoratore ha bisogni di assistere non una ma due persone disabili avrà sempre diritto a 3 giorni di permesso al mese? A disciplinare la possibilità che al lavoratore spettino 6 giorni di permesso è l’articolo 6 del decreto 119 del 2011, con il quale al comma 3 dell’articolo 33 della legge 104 del 1992 riconosce la possibilità di raddoppiare i giorni di permesso portandoli a 6 laddove i familiari da assistere siano entrambi parenti o affini di primo grado, coniuge incluso. Tale possibilità è estesa anche ai parenti o affini di secondo grado nel caso in cui il coniuge o il genitore del disabile siano mancati, deceduti o invalidi a loro volta o over 65. La possibilità di cumulare i permessi 104 è riconosciuta per l’assistenza di persone disabili è valida solo quando gli assistiti sono genitori, figli, coniuge, suocero, suocera, nuora e genero. La normativa stabilisce che il cumulo è consentito solamente quando è dimostrata l’impossibilità per il lavoratore di assistere le persone contemporaneamente. Affinché si possano cumulare i permessi è necessario che l’assistenza sia esclusiva e continua per ciascuna delle persone in questione. Non ci sono limitazioni per la persona disabile che già usufruisce dei 3 giorni di permesso per se stesso: nel caso in cui egli abbia necessità di assistere allo stesso un familiare con disabilità potrà godere di altri 3 giorni di permesso se il medico legale attesta la capacità di costui di poter assistere a sua volta un disabile. Per poter richiedere il cumulo dei permessi 104 bisogna presentare una domanda distinta per ciascuna persona disabile da assistere allegando tutta la documentazione utile a dimostrare la necessità di assistenza disgiunta.

BONUS NATALE

Insieme alla pensione di dicembre sono in arrivo due bonus. Sono bonus quelle maggiorazioni sociali che integrano l’importo della pensione per coloro che hanno un reddito basso. Questi due bonus, insieme alla tredicesima, renderanno importante l’importo della pensione di dicembre. È stata la legge di Bilancio del 2001 a introdurre il bonus tredicesima: un importo che all’epoca aveva il valore di 300mila lire, oggi è pari a 154,94 euro, un importo fisso non soggetto a rivalutazione. Questo bonus spetta solamente a coloro che sono titolari di uno o più trattamenti pensionistici a carico dell’AGO (assicurazione generale obbligatoria) o delle forme sostitutive, esclusive ed esonerate della stessa nonché delle forme pensionistiche obbligatorie gestite dagli enti privatizzati di cui al d.lgs. 509/1994. Questo bonus non spetta, quindi, agli invalidi civili o ai titolari di pensione di vecchiaia e invalidità delle mutualità pensioni a favore delle casalinghe. Nonostante l’importo sia lo stesso, cambiano i requisiti: ad averne diritto sono coloro che hanno una pensione che non supera l’importo del trattamento minimo annuo del fondo pensioni lavoratori dipendenti, il cui valore definitivo per il 2023 è pari a 7383,22 euro, 597,94 euro mensili. Spetta in misura parziale a coloro che pur avendo un reddito superiore non superano la soglia pari al trattamento minimo integrato del valore del suddetto bonus. Ci sono altri requisiti da soddisfare: il reddito complessivo, non solo la pensione, non deve superare di 1,5 volte il valore del trattamento minimo. Nel caso del pensionato coniugato, per avere diritto al bonus, il reddito complessivo coniugale non deve superare di tre volte il trattamento minimo. A luglio, ai pensionati che hanno compiuto i 64 anni di età e soddisfano determinati requisiti, è stata riconosciuta la quattordicesima mensilità. Questa è diversa dalla quattordicesima riconosciuta ai lavoratori dipendenti: il valore è infatti assegnato dalla legge e varia a seconda del reddito, del numero di contributi maturati e della gestione di appartenenza. Se a luglio, mese di pagamento della quattordicesima, non si avevano alcuni requisiti come i 64 anni di età o la pensione, requisiti che sono subentrati nei mesi successi, la normativa prevede che la quattordicesima venga pagata a dicembre.

IL TUTORE

Il tutore è un rappresentante legale che agisce per conto della persona rappresentata nei modi stabiliti dalla legge. Il tutore può essere nominato dal giudice in favore di una persona incapace solo in due circostanze: per il minore e per l’interdetto. I genitori sono automaticamente i tutori dei figli fino al 18esimo anno di età. Nel momento in cui vengono meno entrambi, per morte o decadenza della potestà genitoriale, si procede alla nomina di un tutore. In caso di più minori fratelli e sorelle, viene nominato un solo tutore. Il tutore viene nominato anche in seguito alla sentenza di interdizione, la quale accerta la completa incapacità di agire di un soggetto maggiorenne o minorenne emancipato. Le funzioni del tutore del minore e quello dell’interdetto sono, quindi, analoghe. L’interdizione è l’unica circostanza che da luogo alla nomina di un tutore per un soggetto maggiorenne. C’è, tuttavia, differenza tra il curatore e l’amministratore di sostegno. Entrambi, infatti, non possono rappresentare il soggetto e decidere in sua vece. Le funzioni del tutore sono molto più ampie e riguardano tutte le necessità della persona rappresentata. Il tutore ha il compito di: prendersi cura del soggetto in tutela, compiere atti in vece del tutelato e amministrare i suoi beni e informare il giudice in merito alle sue decisioni. Il tutore non può decidere in modo discrezionale ma deve ottenere specifiche autorizzazioni al fine di preservare il più possibile i diritti del tutelato. È necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare per atti come la compravendita immobiliare, l’accettazione e rinuncia all’eredità, l’investimenti, riscossioni di capitali e stipula di contratti. L’autorizzazione del tribunale è fondamentale per vendere beni, costruire pegni e ipoteche, stipulare divisioni, compromessi e transazioni. Nella possibilità di eventuali conflitti di interesse, il giudice provvede alla nomina di un curatore speciale che affianchi il tutore quando necessario. La nomina del tutore avviene da parte del giudice dando priorità ai familiari più vicini al tutelato. Il minore che ha compiuto 12 anni o che mostra capacità di discernimento può essere ascoltato dal giudice nelle sue preferenze. Anche la volontà dell’interdetto è ascoltata dal giudice e rispettata nei limiti dei suoi interessi. Per i minorenni, si hanno diversi modi di assegnazione del tutore. Questo può avvenire tramite testamento o tramite scrittura privata del genitore prima della perdita della potestà genitoriale o della morte. Il tutore presta un giuramento in tribunale dinanzi al giudice tutelare promettendo di svolgere il suo ruolo nel rispetto del tutelato o delle sue necessità. Il tutore può essere revocato per negligenza, abuso di poteri, inettitudine o insolvenza. Sono esonerati dall’incarico di tutore i soggetti per cui l’impegno risulterebbe impossibile o troppo gravoso(ad esempio per malattia o anzianità).

IL LICENZIAMENTO

Il datore di lavoro non può licenziare i dipendenti a propria discrezione. Il licenziamento è ammesso per motivi disciplinari, legati quindi al comportamento del lavoratore, economici e organizzativi. Secondo le leggi in vigore, è vietato licenziare la dipendente donna nel periodo che intercorre tra la richiesta delle pubblicazioni di matrimonio fino ad un anno dopo la celebrazione del suddetto. Questo divieto è volto a limitare la discriminazione ed è rivolto proprio alle dipendenti femminili. Rimane legittimo, invece, il licenziamento per giusta causa, per cessazione dell’attività aziendale o termine delle mansioni della lavoratrice o per scadenza contrattuale. È vietato licenziare una lavoratrice incinta, divieto che permane fino al 1 anno di età del figlio. È vietato licenziare il padre che si astiene dal lavoro per i primi tre mesi del figlio in mancanza della madre nelle ipotesi di grave infermità, morte, abbandono o affidamento esclusivo del padre. Rimane, tuttavia, legittimo il licenziamento nei casi espressamente previsti dalla legge, giusta causa e scadenza contrattuale compresi. È vietato licenziare il dipendente durante la malattia a meno che non superi il periodo di comporto previsto dal contratto collettivo nazionale. Il licenziamento per malattia è legittimo anche in caso di giusta causa legata alla malattia stessa, come: falso certificato medico, assenze alle visite fiscali, doppio lavoro. Non si può licenziare il dipendente assente per malattia a causa di un infortunio sul lavoro: egli ha diritto a rientrare a lavoro soltanto a guarigione ultimata. Il licenziamento di un dipendente per il venir meno della mansione a cui è adibito diventa illegittimo quando, a distanza di poco tempo, il datore di lavoro assume un altro lavoratore per le medesime occupazioni. Il licenziamento per motivi economici o giusta causa è illegittimo quando il datore di lavoro adduce motivi inesistenti o che non riesce a dare prova di contestazione da parte del dipendente. Non si può licenziare il dipendente assente per malattia a causa di infortunio sul lavoro che ha diritto a rientrare a lavoro soltanto a guarigione ultimata. Non è possibile licenziare un dipendente per giustificato motivo oggettivo quando costui può essere adibito ad altre mansioni di cui l’azienda necessita. È vietato, inoltre, licenziare il lavoratore per esercitare ritorsioni, ad esempio, se il dipendente ha fatto causa al datore di lavoro o una vertenza. In queste ipotesi rimane fermo il diritto del datore di lavoro per licenziare il dipendente quando sussistono le condizioni previste dalla legge. È necessario che siano provabili in modo incontrovertibile perché il minimo dubbio a riguardo comporta l’illegittimità del licenziamento in quanto discriminatorio e quindi l’obbligo di reintegra del lavoratore.

BONUS PSICOLOGO

Il ministro della Salute Orazio Schillaci ha firmato il decreto attuativo che da il via al riconoscimento del contributo anche per il 2023 e il 2024. Già nel 2022, il bonus ha rappresentato un valido aiuto per coloro che avevano una determinata fascia di reddito. La novità ora è rappresentata dal fatto che il bonus psicologo, dopo un periodo di sperimentazione, diventa una misura strutturale per il nostro ordinamento. Per il 2023 sono a disposizione 5 milioni di euro mentre per il 2024 saranno 8 milioni. Un’altra novità è rappresentata dall’importo che verrà incrementato a vantaggio dei cittadini che lo richiederanno. Così come per il 2022, d’ora in avanti l’importo massimo rimborsabile dipenderà dalla fascia Isee di appartenenza. I requisiti per accedere al bonus rimangono invariati: il bonus psicologo è riconosciuto una sola volta in favore della persona residente in Italia al momento della presentazione della domanda con un Isee superiore a 50mila euro. Per quanto riguarda, invece, la singola seduta, l’importo rimborsabile è sempre di 50 euro. La domanda dovrà essere presentata telematicamente dall’apposito servizio disponibile sul sito dell’Inps appena ci sarà il via libera da parte dell’istituto. Al termine del periodo stabilito per la presentazione delle domande verrà stilata una graduatoria dove si terrà conto non solo del valore Isee ma anche dell’ordine di presentazione della domanda.

LA REM

Fin dal suo arrivo, nel 2009, la PEC ha contribuito alla digitalizzazione delle comunicazioni ufficiali. La Commissione Europea sta, già da diverso tempo, cercando di uniformare i servizi digitali all’interno dell’Unione Europea. Entro il primo trimestre del 2024, infatti, la PEC verrà sostituita dalla REM (Registered Electronic E-mail), chiamata anche PEC Europea. Molti provider stanno lavorando per rendere il passaggio tra PEC a REM il più semplice possibile, facendo in modo che dal punto di vista dell’utente il cambiamento preveda un semplice passaggio di riconoscimento.                  La differenza, infatti, tra PEC e REM, è proprio la fase di riconoscimento e di identificazione degli intestatari, fase che è obbligatoria per la REM ma non necessaria per la PEC.                     La PEC, dal punto di vista regolamentare, è un SERC (ovvero un servizio di recapito certificato) mentre la REM è un SERCQ (servizio elettronico di recapito certificato qualificato).                            Per ottenere una REM sarà indispensabile completare il riconoscimento attraverso le identità digitali SPID e CIE. Grazie al riconoscimento, la REM, oltre a garantire la ricezione del messaggio, darà anche la certezza dell’identità del destinatario.                           La REM avrà il grande vantaggio di ampliare la validità giuridica della PEC in tutta Europa. Per accedere alla REM sarà necessario abilitare un doppio fattore di autenticazione: al momento dell’accesso sul portale bisognerà inserire un codice OTP inviato o generato dall’app del provider.                Nonostante la REM porterà un servizio migliore nell’ambito delle comunicazioni tra professionisti, essa non risolverà la necessità per le aziende B2c di inviare comunicazioni su larga scala via e-mail e SMS, ottenendo una ricevuta di consegna. Questa necessità può essere soddisfatta da Servizi di Recapito Certificato che consentono di inviare comunicazioni garantendo l’effettiva consegna al destinatario e il valore legale della comunicazione.

DILAZIONE DEL DEBITO FISCALE

L’articolo 25-bis del Codice della Crisi d’Impresa prevede un incentivo volto ad incoraggiare l’accesso delle imprese alla Composizione Negoziata della Crisi.

In merito a quanto appena scritto, l’art. 38, co. 1, D.L. n. 13/2023 prevede che, se un’impresa si trova in gravi difficoltà, l’Agenzia delle Entrate può approvare un piano di rateizzazione sino a 120 rate.

A riguardo, la situazione di disagio non è legata alla situazione economica come invece richiedono analoghe disposizioni contenute nell’art. 19, D.P.R. n. 602/1973, quale mezzo per favorire il buon esito delle trattative deve essere in grado di coprire ogni situazione critica, qualunque essa sia la sua origine, al fine di salvaguardare il benessere l’azienda.

Ne consegue che, agli incentivi si possono applicare le condizioni previste dall’articolo 19, D.P.R. n. 602/1973, solo in quanto compatibili e, quindi, in assenza di diverse disposizioni provvisorie.

Nel caso specifico, non vi è motivo di escludere la possibilità di richiedere il pagamento rateizzato dei debiti IVA non iscritti a registro, con rate variabili di importo crescente ogni anno.

Resta onere dell’ufficio creditore determinare l’importo delle rate pagabili e valutare eventuali parametri di riferimento, purché il piano di rateizzazione rispetti le norme sopra richiamate, prevedendo che l’importo delle rate sia incrementato in modo continuativo in misura annuale.

NOVITÀ FISCALI 2024

IRPEF 2024:

La novità sarebbe quella di accorpare le prime due aliquote IRPEF per garantire un concreto risparmio. Si tratta di ridurre la pressione fiscale sui contribuenti.

Nel dettaglio, l’operazione di revisione porterebbe a 28.000 euro il limite di reddito per l’applicazione dell’aliquota del 23 per cento. Si eliminerebbe quindi l’aliquota del 25 per cento che ad oggi è prevista per chi supera i 15.001 euro. Non cambierà nulla per chi guadagna meno di 15.000 euro, il vantaggio di un simile intervento interessa tutti i contribuenti il cui reddito supera tale soglia ma è inferiore a 28.000 euro, con un risparmio massimo di circa 22 euro al mese.

Complementare alla revisione dell’IRPEF è il rinnovo del taglio del cuneo fiscale e contributivo del 6 e del 7 per cento che garantisce aumenti in busta paga fino a circa 100 euro per i lavoratori e le lavoratrici dipendenti.

L’obiettivo per il 2024, quindi, è anche quello di confermare l’esonero contributivo che riguarda la quota dovuta dai lavoratori pari al 6 per cento per le retribuzioni fino a 35.000 euro e pari al 7 per cento per quelle fino a 25.000 euro.

IRES:

La legge n. 111 del 9 agosto 2023 introduce agevolazioni che prenderanno forma concretamente con l’approvazione dei decreti attuativi.

In particolare, si prevede una riduzione dell’aliquota dell’IRES ora la 24 per cento per:

  • le nuove assunzioni;
  • investimenti qualificati;
  • schemi stabili di partecipazione dei dipendenti agli utili.

Un’agevolazione prevista nel caso in cui si impieghi una somma che corrisponda in tutto o in parte al reddito entro i due periodi d’imposta successivi alla sua produzione. Per le imprese che non possono accedere alla riduzione dell’imposta, viene prevista la possibilità di beneficiare di diversi incentivi relativi agli investimenti qualificati. Questi possono riguardare il potenziamento dell’ammortamento o la deducibilità dei costi relativi alle nuove assunzioni.

La detassazione delle tredicesime pone l’obiettivo di contrastare la perdita del potere d’acquisto di stipendi e pensioni, sostenendo così non solo i lavoratori dipendenti, ma anche i pensionati.

Si ricorda che il taglio del cuneo fiscale, anche quello potenziato al 6 e al 7 per cento, non si applica sulle tredicesime, che dunque per dicembre 2023 non dovrebbero subire variazioni in aumento.

Per quanto riguarda i contribuenti in regime forfettario, la proroga è prevista al 30 novembre 2024, scadenza prevista per integrare i dati della dichiarazione dei redditi dei forfettari che, nelle ultime settimane, si sono visti recapitare le lettere di compliance dell’Agenzia delle Entrate relative alla dichiarazione dei redditi 2022. La norma, dunque, permette il rinvio della regolarizzazione dei dati omessi nel quadro RS.