RASSEGNA STAMPA

LA PENSIONE DI REVERSIBILITA’

La pensione di reversibilità è una forma di sostegno pensionistico rivolto ai familiari di superstiti di un pensionato o di un lavoratore deceduto. Anche nel 2024 vale la regola per cui c’è un limite alla cumulabilità tra i redditi del coniuge superstite e la pensione di reversibilità a lui riconosciuta. La normativa riconosce al coniuge superstite il diritto al 60% della quota di pensione maturata o percepita dal dante causa, quota che sale all’80% in presenza di un figlio e del 100% in presenza di due figli. Quando ci soni figli non ci sono limiti alla cumulabilità con gli altri redditi percepiti diversamente quando del caso singolo coniuge. La normativa, infatti, stabilisce che quando i redditi percepiti sono superiori a 3 volte il valore del trattamento minimo scatta una decurtazione della pensione di reversibilità tanto maggiore quanto più è elevato il reddito. I tagli alla pensione di reversibilità sono applicati nel seguente modo: tra le 3 e le 4 volte il trattamento minimo (soglia 23345,73 – 31127,64 euro) scatta una decurtazione del 25%; tra le 4 e le 5 volte il trattamento minimo (soglia 31127,64 e 38909,55 euro) la decurtazione è del 40% mentre sopra le 5 volte (soglia di 31127,64 euro) il taglio è del 50%. Ai fini della cumulabilità della pensione di reversibilità con altri redditi si considerano tutti quelli assoggettabili a Irpef al netto dei contributi previdenziali e assistenziali, con esclusione dei trattamenti di fine rapporto e anticipazioni. Con la sentenza 162 del 30 giugno 2022 la Corte Costituzionale ha posto un limite ai tagli della pensione di reversibilità stabilendo che l’importo non può essere decurtato di una somma che super l’ammontare complessivo dei redditi aggiuntivi: in presenza di altri redditi, quindi, la pensione di reversibilità può essere decurtata solo fino a concorrenza dei redditi stessi.

LAVORI DI RISTRUTTURAZIONE CONDOMINIALI

L’approvazione dei lavori di ristrutturazione all’interno dei condomini è spesso fonte di complesse vicende giudiziarie. Il Tribunale di Bari, con la sentenza n.4236 del 26 ottobre 2023, ha stabilito che le delibere assembleari che incidono su beni esclusivi sono nulle senza il consenso diretto del condominio interessato. Analizzando in breve la casistica, l’assemblea condominiale aveva deliberato l’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria sul terrazzo di un condominio che minacciava di danneggiare gli appartamenti sottostanti a causa di infiltrazioni di acqua. Le spese in questione venivano addebitate in parte al condominio e in parte al proprietario ma poiché quest’ultimo non aveva ottemperato al pagamento delle relative quote, il condominio agiva nei suoi confronti per il recupero del credito con un decreto ingiuntivo. Contro l’ingiunzione di pagamento il condominio proponeva opposizione che il giudice accoglieva sulla base del principio che l’assemblea di condominio non può imporre lavori nelle proprietà private, neanche se questi sono necessari o urgenti. Solo la magistratura, infatti, può imporre un’opera sulla proprietà esclusiva, non il condominio che è un soggetto privato. Infatti l’assemblea condominiale ha il potere di gestire i beni e i servizi comuni e non può deliberare interventi su beni esclusivi salvo ottenere il consenso del proprietario. Anche la Cassazione ha decretato la nullità della delibera avente ad oggetto manutenzioni sulla proprietà privata adottate in assenza dell’autorizzazione del condomino titolare esclusivo del bene. La decisione dell’assemblea sarebbe invalida perché va oltre i poteri che la legge le attribuisce: i poteri del condominio non possono invadere la sfera di proprietà dei singoli condomini. Quindi la delibera è nulla e può essere impugnata senza limiti di tempo, in qualsiasi momento. Nel caso dei balconi, invece, l’assemblea condominiale può intervenire sulle parti che svolgono una funzione ornamentale e contribuiscono ad abbellire il palazzo come parapetti, fioriere in cemento e frontalini. Tali beni sono condominiali perché fanno parte del decoro architettonico che è un bene comune. Solo di essi il condominio ha il potere di deliberare i lavori di manutenzione ponendo le spese a carico di tutti i condomini secondo millesimi, anche quelli con balconi non interessati ai lavori.

DIMISSIONI PER GIUSTA CAUSA

Quando un dipendente lascia il lavoro a causa di una grave violazione del contratto si parla di dimissioni per giusta causa. Le dimissioni per giusta causa non richiedono, a differenza delle dimissioni rassegnate per altri motivi, il periodo di preavviso per cui il dipendente può smettere di lavorare fin dal giorno successivo e richiedere l’indennità di disoccupazione Naspi. Le dimissioni volontarie per giusta causa richiedono, tuttavia, una valida motivazione. Le ragioni possono variare ma devono comunque rientrare nei criteri previsti dalla legge e dal contratto collettivo nazionale: il datore di lavoro, infatti, ove ritenga non ci siano validi motivi, può contestare le dimissioni. Le ragioni che spingono un dipendente a specificare che si tratta di dimissioni per giusta causa sono due: non dover osservare alcun preavviso e mantenere il diritto alla Naspi. Il lavoratore e il datore di lavoro potrebbero avere pareri discordanti: per questo motivo è importante attenersi a quanto stabilito dalla normativa. Secondo la normativa, l’inadempimento del datore deve essere così grave da non consentire di proseguire il rapporto di lavoro. Le ragioni che potrebbero far scattare la giusta causa sono diverse come stipendio non pagato, ripetuti ritardi nei pagamenti, discriminazione sul luogo di lavoro, violazione dei diritti del lavoratore (violenze o molestie sul posto di lavoro), cambiamenti unilaterali nel contratto di lavoro senza il consenso del dipendente e mobbing. Tra i casi in cui il dipendente è autorizzato a dimettersi c’è il mancato pagamento dello stipendio. La Corte di Cassazione ha riconosciuto il mancato pagamento dello stipendio come un grave inadempimento che da risoluzione immediata del rapporto di lavoro. La giurisprudenza ha chiarito che l’arretrato di una sola retribuzione non è sufficiente per far scattare le dimissioni per giusta causa. La sentenza n.150/2017 ha chiarito, infatti, che servono almeno due mensilità per far scattare le dimissioni per giusta causa. Potrebbe accadere che sia lo stesso Ccnl a stabilire che il dipendente sia autorizzato a dimettersi immediatamente in caso di ritardo nel pagamento delle retribuzioni: in questo caso il lavoratore potrà licenziarsi già dall’11 giorno del mese in cui avrebbe dovuto ricevere lo stipendio, come chiarito dal tribunale di Milano nella sentenza 1713/2017. Se il datore di lavoro non versa i contributi previdenziali o assistenziali, le omissioni giustificano le dimissioni per giusta causa del lavoratore. Questa casistica viene meno se il fatto è stato a lungo accettato dal lavoratore. Le dimissioni per giusta causa possono essere giustificate anche dal fatto che il datore di lavoro tenga un comportamento ingiurioso verso il dipendente. Le dimissioni per giusta causa si considerano legittime a seguito della pretesa del datore di lavoro di prestazioni illecite del dipendente ovvero di comportamenti illeciti o in contrasto con la legge. La Cassazione reputa legittime le dimissioni per giusta causa in caso di molestie sessuali perpetrate dal datore di lavoro nei confronti del dipendente. Per molestie sessuali si intendono i comportamenti lesivi e molesti riguardanti la sfera sessuale ovvero comportamenti indesiderati a connotazione sessuale espressi in forma fisica, verbale o non verbale che hanno lo scopo di violare la dignità della persona. Anche il demansionamento del dipendente può legittimare le dimissioni per giusta causa del lavorare. Per demansionamento si intende uno svuotamento del numero e del contenuto delle mansioni, tale da determinare un pregiudizio al bagaglio professionale del lavoratore. Tuttavia, una recente sentenza della Cassazione stabilisce che adibire il lavoratore a mansioni inferiori è legittimo se costituisce una alternativa alla perdita del posto di lavoro. L’assegnazione a un inquadramento inferiore può essere attuata anche senza bisogno di un accordo in caso di modifica dell’organizzazione aziendale che ricada sulla posizione del dipendente. Le dimissioni per giusta causa sono legittime in caso di mobbing. Con il termine mobbing intendiamo tutti quei comportamenti vessatori, reiterati e duraturi, individuali o collettivi rivolti nei confronti di un lavoratore ad opera di superiori gerarchici o colleghi. Affinché si possa configurare il mobbing, devono esserci comportamenti di carattere persecutorio, comportamenti attuati con intento vessatorio contro la vittima in modo diretto, sistematico e prolungato nel tempo. L’intento persecutorio e la volontà lesiva devono essere riscontrabili in tutti i comportamenti. Deve essere presente un danno alla salute, alla personalità o alla dignità. Infine, tra il danno e i comportamenti deve esistere un rapporto causa-effetto. Per le dimissioni per giusta causa non c’è una procedura specifica da seguire. Queste, quindi, rientrano nella procedura telematica prevista dall’articolo 26 del D.Lgs 151/2015: per rassegnare le dimissioni bisogna servirsi dell’apposito servizio sul sito clic lavoro del ministero del lavoro. Il datore di lavoro può contestare le ragioni del lavoratore e chiedere che riconosca l’indennità di mancato preavviso. In caso di ricorso contro le dimissioni per giusta causa, sarà il lavoratore a dover provare quanto affermato in sede di dimissioni.

L’ACQUISTO DELLA CASA

L’acquisto di una casa rappresenta un momento cruciale nella vita di molte persone. Scegliere a chi intestare la proprietà, se si è in una relazione di coppia, può essere comunque complicato. L’intestatario dell’immobile è colui che risulterà l’esclusivo proprietario sulla quale graveranno gli obblighi patrimoniali e le responsabilità e risulta tale dal cosiddetto “atto di provenienza”, ovvero il rogito che ha decretato il passaggio di proprietà. Poiché ogni cittadino risponde con tutto il patrimonio, presente e futuro dei debiti contratti, è sempre opportuno scegliere un soggetto che svolge un’attività priva di rischi. L’intestatario è anche l’unico che può trasferire il bene ai propri eredi. Vi è una grande differenza tra l’acquisto di una casa prima del matrimonio o dopo di esso. Quando una casa viene acquistata prima del matrimonio, essa non entra mai nel regime patrimoniale. Il regime patrimoniale indica l’insieme delle regole relative ai rapporti patrimoniali tra coniugi. In assenza di una scelta diversa, al momento del matrimonio, si instaura la comunione legale dei beni e tutto ciò che viene acquistato durante il matrimonio è di proprietà di entrambi i coniugi. E’ possibile optare, anche, per la separazione dei beni, in forza della quale ciascun coniuge resta proprietario di ciò che compra con il proprio denaro. Essa può risultare da una una scelta fatta all’atto del matrimonio o in un momento successivo tramite atto notarile. La legge, infatti, permette ai coniugi di rivedere le scelte fatte in precedenza: entrambi i coniugi potranno rivolgersi ad un notaio per esprimere le loro volontà mediante un atto pubblico. Tuttavia gli acquisti fatti prima del matrimonio restano di proprietà dell’acquirente indipendentemente dal regime patrimoniale scelto al momento del matrimonio. Gli acquisti fatti dopo il matrimonio seguono una regola diversa a seconda del regime patrimoniale scelto: in caso di comunione dei beni l’immobile è in comproprietà tra i coniugi ove ognuno vi è titolare al 50%. La comunione è inscindibile se non con la morte o la separazione. In caso di separazione dei beni, l’immobile è di proprietà di chi ha sottoscritto il contratto di compravendita anche se costui potrebbe comunque cointestare il bene al proprio coniuge. Per quanto riguarda le donazioni e le successioni, esse non entrano mai nella comunione dei coniugi anche se i relativi beni vengono trasferiti dopo il matrimonio. Nel caso di matrimonio con separazione dei beni, l’acquisto di un immobile da parte di un singolo coniuge egli sarà il titolare esclusivo. Se la coppia decide di lasciarsi, la casa torna al proprietario. Tuttavia, nel caso in cui i coniugi abbiano figli minori o maggiorenni non ancora maggiorenni, il giudice attribuirà il diritto di abitazione nella casa coniugale al genitore che ha in affido la prole. E’ possibile anche escludere una casa acquistata durante il matrimonio dalla comunione legale dei beni: entrambi i coniugi dovranno recarsi insieme da un notaio e insieme fare la dichiarazione di esclusione della casa dalla comunione dei beni.

TARI 2023

La Tari è una tassa a carattere regionale: le sue regole e istituzioni sono dettate dai Comuni. Per avere un calendario preciso delle scadenze è quindi necessario fare riferimento alle istituzioni del comune di appartenenza. Tuttavia, ci sono delle linee guida a livello nazionale che ogni Comune deve rispettare ovvero la possibilità di predisporre un pagamento rateale e che l’ultima rata sia versata dopo il 30 novembre. La scadenza della Tari varia in base alle disposizioni dei diversi Comuni e generalmente è suddivisa in due o massimo quattro rate: il primo acconto a fine aprile, un secondo acconto entro fine luglio e il saldo finale entro il 31 dicembre. Nel tempo la tassa si è evoluta sostituendo le precedenti tasse comunali previste per l’erogazione di servizi di raccolta e smaltimento rifiuti e nel gennaio 2021 è stata soppressa la categoria dei rifiuti speciali. Nonostante le differenze previste su base locale, non cambiano le regole generali per individuare chi paga la Tari 2023 e chi ne è esente. La Tari è calcolata secondo una quota fissa ed una quota variabile. L’importo dovuto è determinato sia in relazione alle caratteristiche dell’immobile che a quelle del nucleo familiare. Abbiamo già detto che le rate possono variare dalle due alle quattro e che la normativa nazionale prevede che le scadenze debbano essere determinate stabilendo almeno due rate a scadenza semestrale di cui una dopo il 30 novembre. Le scadenze per il versamento devono essere almeno due: acconto e saldo. Solitamente l’acconto o gli acconti si pagano nel periodo compreso tra aprile e settembre mentre il saldo viene fissato tra novembre e fine anno. A decorrere dal 2022, i regolamenti relativi alla Tari devono essere approvati entro il 30 aprile di ogni anno. Il presupposto del pagamento della tassa rifiuti è il possesso o la detenzione a qualsiasi titolo di locali o aree scoperte operative, suscettibili di proporre rifiuti. E’ tenuto al pagamento della Tari chiunque possieda o detenga l’immobile o l’area. A differenza dell’IMU, la tassa sui rifiuti è dovuta da chi utilizza l’immobile e non dal proprietario stesso. Soltanto in caso di affitto breve di durata non superiore ai 6 mesi, l’importo dovuto resta in capo al possessore dell’immobile e non all’utilizzatore. In caso di più possessori o detentori, il pagamento dovrà essere effettuato in solido. La Tari 2023 si paga anche sulle pertinenze, la cui superficie è sommata a quella dell’abitazione al fine del corretto calcolo della quota fissa della tassa rifiuti. Si paga la Tari anche sulla casa disabitata. La Corte di Cassazione ha evidenziato che il mancato utilizzo dell’immobile non esonera dal versamento della Tari. Per evitare l’esborso, il contribuente deve dimostrare che il locale non è idoneo a produrre rifiuti dimostrando la mancanza di arredi e la mancanza di utenze attive. La sola presenza alternativa di arredi o di una sola utenza è sufficiente a far sorgere l’obbligo di pagamento della Tari basato sulla presunzione che l’immobile venga utilizzato e che produca rifiuti. Ci sono, tuttavia, casi di esonero della Tari. Rientrano nella fattispecie aree condominiali comuni e non utilizzate in via esclusiva e aree in cui non si producono rifiuti in modo autonomo (cantine, terrazze, balconi). In questi casi è possibile richiedere al proprio Comune l’esenzione dal pagamento della Tari. Non è dovuto il pagamento della tassa sui rifiuti nel caso di immobile disabitato, nel rispetto dei requisiti sopra citati. Alle esenzioni, si affiancano anche le riduzioni. Le riduzioni possono essere obbligatorie o facoltative. Le riduzioni obbligatorie previste dalla Tari 2023 sono: riduzioni della quota variabile proporzionali alle quantità di rifiuti speciali assimilati agli urbani che il produttore dimostra di aver avviato al riciclo, riduzione per mancato svolgimento del servizio di gestione dei rifiuti e effettuazione del servizio in grave violazione della disciplina di riferimento: in questo caso la Tari è dovuta nella misura massima del 20%, riduzioni per le zone dove non è effettuata la raccolta: la Tari è dovuta nella misura massima del 40%. Le riduzioni possono anche essere facoltative e sono disposte dal Comune. Sono esenzioni e riduzioni in favore delle specifiche fattispecie individuate dalla legge. Rientrano tra queste: abitazioni con un unico occupante, abitazioni e locali per uso stagionale, abitazioni occupate da soggetti che risiedono a abitano la dimora per più di 6 mesi all’anno all’estero, fabbricati rurali ad uso abitativo, attività di prevenzione nella produzione di rifiuti. Alcuni contribuenti possono ottenere uno sconto automatico sulla Tari. Essi sono beneficiari del bonus sociale introdotto dal decreto Fiscale 2020 dedicato a luce, gas e acqua dedicato ai nuclei familiari in condizioni di disagio economico e quindi con ISEE basso. I requisiti per accedere al bonus sono quindi un ISEE non superiore ai 9530€, famiglie numerose con almeno quattro figli a carico con ISEE fino a 20.000€ e percettori del reddito o della pensione di cittadinanza. Le modalità di calcolo della Tari 2023 vengono stabilite in base al tariffario previsto dal proprio Comune considerando la quota fissa, determinata in base ai metri quadrati dell’immobile e della relative pertinenze moltiplicati per il numero degli occupanti, e la quota variabile, ovvero la quantità di rifiuto residuo conferito e quantitativo minimo obbligatorio stabiliti da ciascun comune sulla base della delibera TARI comunale. Le regole di calcolo sono differenti per le utenze non domestiche. in tal caso, la quota variabile deve essere moltiplicata per la superficie assoggettabile al versamento della Tari. L’ARERA, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, ha approvato una delibera che fissa i nuovi criteri che i Comuni devono rispettare per emanare i regolamenti in tema rifiuti per il periodo 2022- 2025. Questo documento è entrato in vigore dal 1 gennaio 2023 e obbliga i comuni a rateizzare le quote della Tari di importo minimo di 100 euro per soggetti beneficiari del bonus sociale per disagio economico per luce, gas e acqua e per soggetti in condizioni economiche disagiate secondo i parametri definiti dall’ente territoriale competente e se l’importo addebitato supera del 30% il valore medio delle fatture emesse negli ultimi due anni. I Comuni suddividono il pagamento della Tari in tre rate: il primo acconto da versare entro aprile, il secondo acconto da versare entro la fine di luglio, il saldo da versare entro fine 2024. Le prime rate di Tari sono calcolate sulla base della tassa dovuta l’anno precedente mentre il saldo di dicembre, invece, è determinato sulla base delle tariffe stabilite per il 2024 a patto che la delibera del comune sia pubblicata entro il 28 ottobre 2024. Anche per il 2024 rimangono invariate le modalità di pagamento della Tari che può essere versata con modello F24, bollettino postale o pagamento MAV.

VOLI CANCELLATI

A chiunque sarà capitato, almeno una volta, di recarsi in aeroporto e scoprire in loco il ritardo o la cancellazione del proprio volo. La normativa europea con regolamento 261/2004 stabilisce una serie di diritti per il passeggero che, a causa di ritardi o cancellazioni, è costretto a rinunciare al viaggio o a rimandare la partenza. Il passeggero può scegliere se ricevere un rimborso del prezzo del biglietto, imbarco sul primo volo alternativo, sistemazione in albergo, trasferimento dall’aeroporto al luogo di sistemazione e viceversa. Inoltre gli è dovuta anche la compensazione pecuniaria. L’ammontare della compensazione pecuniaria riconosciuta per legge e senza bisogno della dimostrazione di un danno varia a seconda della tratta aerea e della distanza da percorrere: per tratte pari o inferiori a 1500km è pari a 250€,per tratte superiori a 1500km è pari a 400€. Per le tratte extracomunitarie si parte da un minimo di 250€ fino ad arrivare a 600€ per tratte superiori ai 3500km. La compensazione pecuniaria non spetta nell’ipotesi in cui la compagnia area riesca a dimostrare che la cancellazione è dovuta a fattori ad essa non imputabili come condizioni meteo avverse o scioperi e se il viaggiatore è stato informato della cancellazione del volo almeno 14 giorni prima della data prevista o tra le sue settimane e i sette giorni prima della partenza a condizione che non sia stato proposto un volo alternativo che parta non oltre due ore dall’orario originale e arrivi a destinazione con quattro ore di ritardo rispetto all’orario programmato o con meno di sette giorni dalla partenza con un offerta di volo che parta circa un’ora prima e arrivi massimo due ore dopo l’orario previsto. Questi indennizzi sono previsti dalla legge e vengono erogati alla semplice esibizione del biglietto. La Corte di Cassazione, nel 2008, ha affermato che possono essere risarciti i danni morali derivanti da un reato o dalla violazione di un diritto costituzionale. Con la sentenza n. 33276 del 29 novembre, la corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno morale ad un uomo che, a causa di un volo cancellato, non ha potuto presenziare al funerale del padre. La Corte ha quindi ribadito che il risarcimento per danno non patrimoniale è possibile in quanto la lesione di diritti è ritenuta grave e non futile. Per ottenere il risarcimento è quindi necessario che: l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale, la lesione sia grave e che il danno non sia futile. Anche la corte di Giustizia UE, con sentenza C-83/10 del 13/10/211, ha stabilito che i passeggeri possono richiedere un risarcimento supplementare se la compensazione pecuniaria non copre interamente il danno subito. Il giudice deve quindi valutare se il danno morale ha superato una soglia di gravità sufficiente e l’unicità dell’evento mancato.

LA VENDITA DELLA QUOTA EREDITARIA

Si ha comunione ereditaria quando più persone ereditano insieme lo stesso patrimonio formando una “comproprietà”. In una situazione di comproprietà, ciascun erede possiede una parte ideale dell’eredità rappresentata da una quota percentuale che può essere trasferita a un altro coerede o a un terzo prima della divisione della comunione. Un coerede, quindi, può decidere di trasferire la propria quota ereditaria, o una parte di essa, ad un altro coerede. Se tutte le quote confluiscono in un solo coerede, la comunione si conclude senza bisogno di un procedimento di divisione formale. Per il trasferimento della quota ereditaria tra coeredi è necessario il notaio se essa comprende anche immobili. Per il trasferimento della quota ad un terzo esterno alla comunione ereditaria, il coerede deve rispettare il diritto di prelazione degli altri coeredi. Esso previene l’ingresso di estranei nella comunione poiché garantisce ai coeredi di essere “preferiti” rispetto a terzi a parità di condizioni economiche e contrattuali. Il coerede che desidera vendere la sua quota deve notificare formalmente la proposta agli altri coeredi specificandone il prezzo e le condizioni. La proposta è revocabile fino all’accettazione da parte degli altri coeredi che devono esprimere la loro decisione senza avviare trattative. Con la revoca, il cedente manifesta la volontà di non voler più vendere la propria quota. Il diritto di prelazione spetta se si intende vendere la quota ereditaria: il genitore che vuole regalare al figlio la propria quota ereditaria può farlo senza dover fare prima la proposta ai coeredi. Il diritto di prelazione non si applica quindi in caso di donazione e se il testatore ha diviso l’eredità tramite atto testamentario. Il diritto di prelazione è personale e non può essere trasferito agli eredi del coerede. Il coerede ha due mesi dalla notifica per accettare la proposta di cessione. L’accettazione è considerata valida nel momento in cui viene comunicata al coerede venditore. Se più coeredi esercitano il diritto di prelazione, la quota viene divisa in parti uguali tra loro. Se un coerede vende la sua quota senza rispettare il diritto di prelazione, la vendita rimane valida ma gli altri coeredi hanno il diritto di retratto, ossia possono riscattare la quota venduta al prezzo pagato dal terzo acquirente. Con il diritto di retratto, il coerede può sostituirsi all’acquirente terzo: eventuali cessioni successive perdono efficacia, indipendentemente dalla trascrizione dell’atto di vendita o dalla priorità delle trascrizioni successive.

LA PRESCRIZIONE DELLE FATTURE

Anche le fatture, rappresentando dei crediti, sono soggette a prescrizione. Questo significa che dopo un certo periodo di tempo, non possono più essere pretese dal creditore se il termine di prescrizione non sita stato interrotto da richieste di pagamento. Il tempo di prescrizione, infatti, ricomincia per ogni atto interruttivo. Conoscere i tempi di prescrizione delle fatture è fondamentale sia per i debitori per poter opporre l’intervenuta prescrizione alle richieste di pagamento ma anche per i professionisti che devono sapere entro quando intervenire per recuperare i pagamenti. La normativa generale indica come termine della prescrizione dei crediti derivanti da obbligazioni contrattuali 10 anni dalla loro emissione o richiesta di pagamento notificata. Tuttavia bisogna fare delle dovute precisazioni. Le fatture per prestazioni periodiche, dove per prestazioni periodiche si intendono fatture annuali, canoni d’affitto o bollette telefoniche, si prescrivono in 5 anni. Le fatture emesse da professioni, quali ad esempio medico, notaio, avvocato, si prescrivono dopo tre anni. In questo caso si parla di prescrizione presuntiva: la prestazione si considera pagata al trascorrere di un determinato periodo di tempo, in questo caso 3 anni. Le fatture emesse dall’agente immobiliare si prescrivono in 1 anno. Quelle emesse per trasporti, spedizioni, scuole e palestre private si prescrivono in 1 anno. Anche le fatture emesse dalle ditte di manutenzione e riparazione per lavori edili si prescrivono in 1 anno e la contestazione della fattura deve essere inoltrata dalla sede legale entro e non oltre 8 giorni dalla sua emissione. Le fatture emesse da hotel e alberghi si prescrivono dopo 6 mesi. Per interrompere la prescrizione della fattura è necessario richiedere il pagamento, con un sollecito o con una diffida, al debitore con una raccomandata a/r o tramite PEC. E’ fondamentale l’uso di questi strumenti per certificare la data di notifica della comunicazione e per escludere dubbi sulla ricezione della suddetta. Ricordiamo che, da ogni atto interruttivo, la prescrizione parte da zero. Se nonostante le richieste, il debitore non provvede al pagamento della fattura, per recuperare i soldi sarà necessario agire per vie legali rivolgendosi al giudice di pace o al tribunale ordinario per ottenere un decreto ingiuntivo e avviare una procedura di riscossione.

L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO

A seguito della separazione, il coniuge ha l’obbligo di contribuire al mantenimento del coniuge economicamente debole. questo obbligo permane anche a seguito dello scioglimento definitivo del matrimonio tramite l’assegno divorzile. Secondo la legge, il giudice pronunciando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge non addebitante il diritto di ricevere quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. Il mantenimento serve a garantire al coniuge più debole, lo stile di vita tenuto nel corso del matrimonio. La Corte di Cassazione ha stabilito che il solo parametro del tenore di vita non può giustificare da solo la corresponsione del mantenimento. Bisogna valutare altri elementi come la durata del matrimonio, le potenzialità reddituali e l’età del coniuge. Il giudice deve considerare anche l’assegnazione della casa coniugale al coniuge beneficiario. Un coniuge senza reddito, tuttavia, potrebbe non vedersi riconosciuto il diritto all’assegno perché è ancora giovane e può trovare lavoro o magari perché il matrimonio è stato troppo breve per impedire al coniuge di intraprendere una carriera lavorativa. L’assegno di mantenimento viene meno nel momento in cui mutano le condizioni economiche che avevano giustificato la sua iniziale attribuzione: se il coniuge ricevente trova un lavoro stabile, l’assegno di mantenimento potrebbe essere revocato. Lo stesso avviene nell’ipotesi in cui il coniuge ha una relazione durativa con una terza persona con la quale va a convivere, creando di fatto, un nuovo nucleo familiare. La Corte di Cassazione si è espressa rendendo permanente la perdita del diritto all’assegno periodico di mantenimento: nel momento in cui vengono meno le condizioni per il mantenimento, questo si perde in maniera definitiva anche se in futuro l’ex beneficiario dovesse nuovamente trovarsi in uno stato di indigenza. L’assegno di mantenimento può essere revocato anche nell’ipotesi in cui sia il coniuge obbligato a non poter sostenere il pagamento, avendo, ad esempio, perso il lavoro. Il mantenimento al coniuge potrebbe, tuttavia, essere dovuto per sempre. E’ il caso di marito e moglie che restano separati per tutta la vita e che le condizioni che hanno giustificato la concessione del mantenimento a favore di uno dei due rimangano invariate. Tuttavia gli ex coniugi non possono mettersi d’accordo per un mantenimento perpetuo: il diritto all’assegno di mantenimento è indisponibile per cui le parti non possono disporne a proprio piacimento neanche trovato un accordo. Nel momento in cui viene meno lo squilibrio economico che giustificava la corresponsione del mantenimento, il coniuge interessato può fare ricorso al tribunale per chiedere la revoca o la riduzione dell’assegno periodico. L’istanza può essere fatta in ogni momento: la circostanza fondamentale è che sia provato il mutamento delle condizioni economiche che giustificarono la concessione del mantenimento.

L’OSTRUZIONISMO GENITORIALE

Non è insolito che, a seguito di una separazione, i figli diventino lo strumento della vendetta degli ex coniugi e che il genitore collocatario ostacoli le visite dell’altro genitore. Tuttavia se il calendario delle visite è stato fissato, anche genericamente, dal giudice l’ostruzionismo può avere conseguenze legali di carattere penale. Una recente corte della cassazione ricorda cosa succede se la madre non fa vedere i figli al padre. Ogni genitore ha il diritto- dovere di mantenere solidi legami con i figli rispettando il diritto alla bi-genitorialità tacitamente riconosciuto dalla Costituzione. Non ci si limita al solo mantenimento materiale ma bisogna garantire una presenza costante e amorevole. Il figlio divenuto maggiorenne può chiedere il risarcimento al genitore anaffettivo e indifferente che non abbia mai partecipato ai momenti più importanti della sua vita. Le visite concordate tra genitore e figlio sono un diritto e un dovere per il genitore. Nonostante non si possa imporre un incontro figlio- genitore, il genitore che subisce ostruzionismo può denunciare l’altro per la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, reato sancito dall’articolo 388 del codice penale. La cassazione, con la sentenza n 47882/2023 ha stabilito che: il reato scatta anche in capo a chi elude un provvedimento del giudice assunto nella causa di separazione o divorzio personale dei coniugi o che concerni l’affidamento di minori o di altre persone incapaci. Il colpevole è punito qualora non ottemperi all’ingiunzione di eseguire il provvedimento con la reclusione fino a tre anni. L’imputato può evitare la condanna penale appellandosi al beneficio della “particolare tenuità del fatto” a patto che la condotta illecita non sia stata reiterata per più volte. Oltre alla denuncia, il padre o la madre che si vede ostacolare l’incontro con i figli, può anche agire dinanzi al tribunale civile per ottenere la collocazione presso di sé per i figli e l’affidamento esclusivo dei figli in proprio favore. In ogni caso, il giudice è tenuto ad ascoltare il figlio per conoscere il suo parere se questi abbia almeno 12 anni o se più piccolo, qualora lo ritenga capace di discernimento. L’audizione del minore è richiesta a pena di nullità dell’eventuale sentenza. Alcuni tribunali, nel garantire l’interesse superiore del figlio, non hanno accolto la richiesta di modifica della collocazione di quest’ultimo. Il padre può anche agire per il risarcimento dei danni morali conseguenti la perdita del legame con i figli se la condotta ostruzionistica della madre si è protratta per molto tempo e ha generato una alienazione genitoriale o parentale. Analizzando un caso concreto, una madre è stata condannata per aver impedito di esercitare, per quattro mesi, al padre dei suoi figli il suo diritto di visita. Per la cassazione, la donna ha violato il provvedimento giudiziario che regolamentava le visite post-separazione e costei è stata condannata penalmente escludendo l’applicazione della causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto” come previsto dall’articolo 131 bis del codice penale.