RASSEGNA STAMPA

MULTA PER STRISCE BLU

Le contravvenzioni per la sosta in zone a pagamento sono un vero incubo per molti automobilisti. L’incremento delle tariffe e la mancanza di spazi gratuiti per parcheggiare spingono gli automobilisti a lasciare l’auto in sosta su strisce blu spesso rincorrendo anche in contravvenzioni. Ci sono, tuttavia, casi in cui è possibile contestare e annullare una multa per sosta su strisce blu. E’ il caso, ad esempio, di una multa ricevuta per un ticket scaduto. Il governo ha chiarito che il pagamento parziale della sosta non costituisce una violazione del divieto di sosta ma rappresenta una inesattezza contrattuale. L’amministrazione può chiedere, quindi, una integrazione del pagamento e delle eventuali penalità previste dai regolamenti comunali ma non può infliggere una multa aggiuntiva. La Corte di Cassazione ha stabilito che una multa per la sosta su strisce blu può essere annullata se non ci sono aree di sosta gratuite nelle vicinanze. Questo principio si basa su quanto prescritto da codice della strada, il quale richiede ai Comuni di riservare un’adeguata area destinata a parcheggio gratuito quando gestiscono le zone di sosta a pagamento. Quindi deve esserci un equilibrio tra strisce blu e parcheggi gratuiti. La norma sull’alternanza non si applica nelle zone di rilevanza urbanistica, nei centri storici di particolare importanza, nelle aree pedonali e nelle zone a traffico limitato. Ovviamente per vincere un ricorso di questo tipo è fondamentale provare lo squilibrio a favore dei parcheggi a pagamento tramite la mappa ufficiale con la distribuzione dei parcheggi rimediabile dagli uffici comunali. La multa è contestabile anche quando sia stato acquistato ma non esposto il ticket purché il biglietto sia stato conservato e possa essere prodotto al prefetto o al giudice. In questa particolare casistica, data la condotta poco accorta del conducente, le spese processuali sono a proprio carico ed è quindi consigliabile un ricorso al prefetto, trattandosi di impugnativa meno costosa rispetto al ricorso al giudice di pace. Secondo il codice della strada, gli stalli adibiti a parcheggio devono essere posti al di fuori della carreggiata o in modo da non creare intralcio alla circolazione. Potrebbe essere contestabile, quindi, la sosta nelle strisce blu senza ticket se lo stallo è posto in modo da costituire pericolo per lo scorrimento del traffico. La multa può essere impugnata nel caso in cui lo stallo non sia visibile sul manto stradale ad esempio se le strisce sono vecchie ed eccessivamente sbiadite. E’ possibile annullare la multa elevata da soggetti non qualificati. Sono autorizzati a contestare sanzioni sia i vigili urbani che gli ausiliari del traffico. Non lo sono i dipendenti delle società che gestiscono in appalto un’area di parcheggio con convenzione scaduta o non rinnovata.

ASSEGNO UNICO 2024

La domanda di Assegno Unico va presentata la prima volta che si accede al contributo, ovvero alla nascita del primo figlio. L’Inps, con la circolare n.132 del 15 dicembre 2022 ha rivisto la regola secondo cui la domanda di assegno unico doveva essere presentata ogni anno: già da quest’anno, infatti, il rinnovo è automatico per quanto resti obbligatorio per la famiglia rinnovare l’Isee e comunicare eventuali variazioni. Ricordiamo che tra dicembre e gennaio ci sarà un aumento dell’importo dell’assegno unico pari al 5,4%(tasso di rivalutazione accertato dall’Istat). Il primo passaggio fondamentale riguarda il rinnovo dell’Isee, che assicura che l’importo dell’assegno unico resti correlato alla propria condizione reddituale. Senza Isee 2024, l’Assegno viene erogato ma si limita all’importo più basso. Per richiedere l’Isee 2024 c’è tempo fino al 29 febbraio 2024 per scongiurare un taglio da marzo e fino al 30 giugno per effettuare il ricalcolo a decorrere dall’1 marzo e ricevere in sede di conguaglio, il pagamento degli arretrati. Le variazioni all’Inps vanno comunicate in caso di nascita di altro figlio o di maggiore età. In caso di nuova nascita, infatti, non basta richiedere un nuovo Isee. Occorre darne comunicazione all’Inps attraverso il servizio dedicato. Dopo aver comunicato il nuovo nato tramite codice fiscale, l’Inps sbloccherà il pagamento dell’ulteriore quota di assegno unico, compreso il premio nascita, l’equivalente di quanto sarebbe spettato negli ultimi due mesi di gravidanza. L’assegno unico spetta anche ai maggiorenni, fino al compimento dei 21 anni a fatto che egli frequenti un corso di formazione scolastica o professionale, un corso di laurea ad esempio, e svolga un tirocinio ovvero un’attività lavorativa e possieda un reddito complessivo inferiore agli 8mila euro annui. Spetta inoltre se registrato come disoccupato e in cerca di lavoro presso i servizi pubblici per l’impiego o svolga il servizio civile universale. Bisogna, ovviamente comunicare, tramite apposita area personale o tramite caf e patronati che il figlio diventa maggiorenne ma che soddisfa la condizione per continuare a percepire del sostegno poiché essa non è retroattiva. Bisogna comunicare le variazioni in caso di cambiamento relativo allo stato di disabilità del figlio, variazione dello status di studente per figli di età compresa tra i 18 e i 21 anni, separazione dei coniugi, ripartizione dell’assegno tra genitori e variazione delle modalità di pagamento.

CANI E CONDOMINI

Sempre più famiglie scelgono di crescere in casa animali domestici. Ci sono delle regole ben precise da tenere a mente soprattutto nel caso in cui l’abitazione non sia una villetta privata ma un appartamento condominiale. La riforma del condominio del 2012 ha, infatti, introdotto importanti novità: i regolamenti condominiali non possono vietare il possesso di animali domestici, a meno che non siano stati approvati all’unanimità. Ci sono, ovviamente, delle responsabilità che ogni proprietario deve considerare soprattutto se ci sono animali di grosse dimensioni. Il diritto di detenere animali domestici in condominio è garantito dall’articolo 1138 del codice civile, modificato dalla legge 220/2012. Questa, per l’appunto, afferma che i regolamenti condominiali non possono proibire ai condomini di possedere o detenere animali domestici. L’unica eccezione riguarda i regolamenti contrattuali, ovvero quelli approvati all’unanimità in sede di assemblea e allegati ai singoli atti di compravendita. Affinché la limitazione possa avere efficacia anche nei confronti dei successi condomini, deve essere annotata nei registri immobiliari o allegata all’atto di compravendita affinché ai nuovi condomini ne siano a conoscenza. Anche chi è in affitto deve rispettare il regolamento condominiale per cui se il contratto di locazione contiene il divieto di detenere un cane in casa, l’affittuario non può invocare eccezioni, anche se il locatore non lo aveva avvisato. Nonostante il diritto alla detenzione, il proprietario deve rispettare le regole di convivenza condominiale: l’animale, quindi, non deve disturbare gli altri condomini e non deve essere pericoloso per la salute di costoro. La prima regola da rispettare è quella del rumore: il cane ha diritto ad abbaiare ma questo non può riversarsi come molestia nei confronti dei vicini. Il padrone deve fare di tutto per limitare i guaiti portando l’animale a un corso di addestramento, non lasciandolo solo per molto tempo, non innervosendolo con privazioni, ad esempio, di cibo o lasciandolo fuori al balcone. Comportamenti del genere potrebbero anche integrare il reato di maltrattamenti di animali e possono portare all’apertura di un procedimento penale per il reato di disturbo alla quieta pubblica nei confronti del proprietario. Il giudice può autorizzare il sequestro dell’animale in questione se il padrone non è on grado di gestirlo o, se per lavoro, è costretto a lasciarlo solo per troppo tempo. Oltre al procedimento penale è possibile agire in via civile contro il proprietario del cane per ottenere un’interdittiva alla prosecuzione delle molestie acustiche e il risarcimento del danno. Ci sono regole anche per le aree condominiali condivise. In aree comuni, come cortili o scale, è importante che il cane sia tenuto al guinzaglio, possibilmente corto, e che in ascensore indossi la museruola. Inoltre il cane dev’essere registrato all’anagrafe, avere un microchip e essere vaccinato. Il padrone è tenuto a pulire lì dove l’animale sporca anche se si tratta di semplice pelo. Il regolamento condominiale può vietare che il cane circoli solo negli spazi comuni ma se anche non fosse previsto, i condomini possono imporre al proprietario l’adozione delle dovute misure cautelari per tutelare la sicurezza di tutti i condomini. La responsabilità per eventuali lesioni o danni procurati dal cane ricade sul proprietario o il dog-sitter o il partner convivente o il figlio del proprietario. Chiunque ha disponibilità materiale porta con se la responsabilità penale per le lesioni procurate dall’animale e l’obbligo di risarcire danni fisici e morali alla vittima. La responsabilità civile viene esclusa se si dimostra il caso fortuito: un evento, quindi, imprevedibile e inevitabile, come la condotta di chi aizza il cane, lo maltratta o lo minaccia. Secondo l’art 672 del codice penale, chiunque non custodisca adeguatamente un animale pericolo è soggetto a una sanzione amministrativa da 25 a 258 euro. La corte di Cassazione, con la sentenza 17133/2017 ha stabilito che non è sufficiente il cartello “attenti al cane” per escludere la responsabilità del proprietario in caso di comportamento violento dell’animale.

DECRETO INGIUNTIVO CON FATTURA

Il decreto ingiuntivo è un atto giudiziario con cui il tribunale intima il debitore a saldare il suo debito. Esso è un passaggio fondamentale per avviare la riscossione in caso di futuro inadempimento. Per ottenere un decreto ingiuntivo bisogna provare con certezza l’esistenza del credito e del suo ammontare. La fattura non è solo idonea a questo scopo ma è anche sufficiente a provare il credito e a consentire l’emissione immediata del decreto ingiuntivo. La fattura è quindi un titolo idoneo a provare l’esistenza del credito per l’emissione di un decreto ingiuntivo. E’ possibile chiedere questo atto al giudice di pace o affidarsi al proprio legale per il ricorso e ottenere subito il decreto ingiuntivo presentando la sola fattura. Questo principio è confermato da diverse sentenze di tribunali ordinari ma anche dalla Corte di Cassazione con la sentenza n.15383 del 2010. Essa afferma però un altro principio. Nonostante la fattura sia un titolo all’ottenimento di un decreto ingiuntivo non è sufficiente nel giudizio di opposizione in cui il creditore dovrà presentare i mezzi di prova ordinari. Quindi la sola fattura è utile a ottenere un decreto ingiuntivo e a pretendere il pagamento dal debitore ma nel caso in cui quest’ultimo si opponesse, sarà necessario dimostrarne l’esistenza diversamente. L’opposizione a un decreto ingiuntivo immotivata non è una scelta utile ma la sua emissione consente di interrompere la prescrizione in modo sicuro. In caso di opposizione bisogna prepararsi a deporre mezzi di prova oggettivamente apprezzabili, compresi quelli utili a dimostrare l’esecuzione dell’opera o prestazione per cui si esige il pagamento. Se i debiti sono esistenti, il decreto ingiuntivo è utile per esigerli e ottenerlo provando il credito con la fattura è il modo più semplice e veloce. Affinché la fattura sia efficace, essa deve contenere i dati del venditore o del professionista, i dati del cliente o acquirente, la data di emissione e le condizioni di vendita tra cui la modalità di pagamento e infine l’oggetto della fattura. Per le modalità di presentazione della fattura ai fini di prova è fondamentale verificare le condizioni previste dal tribunale competente sul ricorso: molti tribunali pretendono l’estratto notarile delle scritture contabili mentre altri ammettono l’invio della fattura elettronica. Dal 2024 nessun tribunale potrà pretendere l’estratto notarli perché le fatture elettroniche andranno a sostituire la fatturazione cartacea per contribuenti minimi e forfettari. L’invio della fattura per ottenere il decreto ingiuntivo avviene secondo le modalità stabilite dal tribunale fino alla fine del 2023. E’ utile allegare alla fattura anche la prova di notifica al destinatario con una raccomandata a/r o con PEC.

IL MEDIATORE

La figura dell’agente immobiliare è fondamentale quando si parla di compravendita immobiliare. Egli deve garantire all’acquirente che l’immobile oggetto della compravendita sia privo di ipoteche e pignoramenti. L’agente immobiliare, ovvero il mediatore, ha il compito di facilitare la compravendita di immobili, agendo come intermediario tra venditore e acquirente. Il mediatore vanta il diritto alla provvigione da entrambe le parti. Il pagamento è dovuto quando le parti sottoscrivono un atto giuridicamente vincolante: il compromesso prima e la compravendita poi. Se una delle due parti, dopo aver firmato il compromesso, viene meno alla conclusione dell’affare, il mediatore avrebbe comunque diritto a essere pagato. Anche il mediatore, come il notaio, ha il compito di controllare che l’immobile promesso in vendita sia libero da ipoteche e pignoramenti, Inoltre ha l’obbligo di controllare l’identità del proprietario affinché l’atto non sia nullo. Il ruolo dell’agente non si estende al controllo dettagliato delle conformità urbanistiche e catastali dell’immobile: il mediatore quindi, se il venditore dichiara l’assenza di abusi edilizi, non è tenuto a verificare la veridicità di questo a meno che l’acquirente non glielo chieda espressamente, Una sentenza del Tribunale di Varese si è espressa in merito in questa casistica. Secondo la sentenza, una volta che il venditore dichiara la conformità catastale dell’appartamento e il mediatore non effettua tale controllo, egli deve informare l’acquirente che, se vuole, può incaricare un tecnico per le dovute verifiche, La sentenza in questione ha stabilito, quindi, che nel caso in cui il proprietario della casa dichiari l’assenza di abusi edilizi, il mediatore perde il diritto alla provvigione se non informa l’acquirente di non aver verificato l’attendibilità delle dichiarazioni del venditore stesso. Il mediatore è tenuto a un generale dovere di correttezza e trasparenza. Anche se non ha ricevuto un incarico specifico per controllare la regolarità urbanistica e catastale, deve informare l’acquirente qualora non sia in grado di confermare le dichiarazioni del venditore. La fiducia dell’acquirente nelle informazioni del mediatore è fondamentale e qualsiasi violazione può portare a conseguenze legali e alla perdita della provvigione. Se il mediatore infrange la regola di condotta, può essere condannato al risarcimento dei danni subiti dall’acquirente. Se il contratto definitivo non viene concluso a causa delle irregolarità dell’immobile, l’acquirente può rifiutare di pagare la provvigione al mediatore. L’acquirente ha il diritto di essere informato su tutti gli aspetti dell’immobile comprese le eventuali irregolarità. In caso di omessa informazione, può esercitare il diritto di recesso e chiedere il risarcimento dei danni. La sentenza, infatti, sottolinea l’importanza dell’informazione completa e corretta nel processo di compravendita immobiliare nei confronti dell’acquirente.

IMPUGNARE UN LICENZIAMENTO

Per impugnare un licenziamento occorre rispettare i termini e delle procedure previste dalla legge. La violazione, anche di un solo giorno, degli stessi, comporta la decadenza da ogni tutela. Per impugnare un licenziamento occorrono due attività fondamentali: la fase stragiudiziale, costituita da una lettera di contestazione generica inviata all’azienda, e la fase processuale, costituita dal deposito del ricorso in tribunale con conseguente avvio della causa. Il licenziamento può essere impugnato entro 60 giorni dalla sua comunicazione. Il dipendente, l’avvocato o il sindacalista (muniti di apposita procura) devono inviare al datore di lavoro una comunicazione tramite raccomandata o tramite PEC con cui comunicano l’intenzione di opporsi al licenziamento. Questa non è necessaria nel caso di licenziamento verbale. Essa dev’essere consegnata all’ufficio postale entro il sessantesimo giorno decorrente da quando il lavoratore ha ricevuto il licenziamento. Se questi era assente, si prende in considerazione il giorno in cui il postino ha depositato nella cassetta delle lettere ‘avviso di giacenza. I sessanta giorni decorrono dal ricevimento della comunicazione del licenziamento, non dalla cessazione del rapporto di lavoro: il mancato rispetto del termine di decadenza per impugnare il licenziamento impedisce di richiedere il risarcimento del danno. Entro i 180 giorni successivi alla spedizione della lettera di contestazione, l’avvocato deve eseguire il deposito del ricordo in tribunale o la comunicazione di un tentativo di conciliazione o arbitrato. Anche in questo caso il rispetto del termine è fondamentale per l’accoglimento del ricorso. Se la conciliazione o l’arbitrato sono rifiutati o se non si raggiunge un accordo, il ricorso al giudice dev’essere depositato entro 60 giorni. Il lavoratore può agire in giudizio entro 5 anni per far dichiarare l’inefficacia del licenziamento. Se il lavoratore sostiene di esser stato licenziato oralmente, spetta al datore di lavoro dimostrare l’esistenza e l’efficacia del licenziamento formale.

CONIUGI CON RESIDENZE DIVERSE

L’imu, ovvero l’imposta municipale sugli immobili, è un argomento che interessa molti contribuenti. La legge prevede per l’esenzione del pagamento solo per l’abitazione principale, ovvero quella che è sia residenza del proprietario ma anche dimora abituale. La residenza deve risultare dai certificati anagrafici ed è un dato formale che si ottiene presentando un’apposita domanda al Comune. La dimora abituale è un concetto di fatto: essa consiste nel luogo ove il contribuente vive per gran parte dell’anno. A differenza della residenza, per la dimora non esiste un vero e proprio certificato che dimostri la residenza: una prova potrebbero essere le bollette delle utenze che attestino i vari consumi. Può succedere che, all’interno di una coppia sposata, il marito e la moglie abbiano entrambi un immobile di proprietà. In questo caso i coniugi possono liberamente scegliere quale dei due immobili sarà sottoposto all’Imu tramite una dichiarazione fatta al Comune. Se due persone conviventi posseggono un immobile a testa, l’esenzione Imu spetta solo sulla casa in cui almeno un membro della famiglia risiede e dimora abitualmente. La sentenza 209/2022 della corte costituzionale ha rivisto l’interpretazione dell’Imu per le coppie con residenze separate. Prima di questa sentenza, i coniugi avevano diritto ad una sola esenzione. Ora, invece, è sufficiente che i presupposti di legge sussistano per il proprietario dell’abitazione. Entrambi i coniugi sono esentati dall’Imu se possono dimostrare di avere la residenza nell’immobile e di dimorare abitualmente in tale immobile di residenza. E’ il caso, ad esempio, di coniugi che vivono separati per ragioni lavorative. Non è possibile ottenere l’Imu nella casa, ad esempio, delle vacanze poiché mancherebbe il presupposto della dimora abituale. Per avere la doppia esenzione è fondamentale, quindi, dimostrare la residenza anagrafica e la dimora abituale dell’immobile. Il comune può, infatti, richiedere prove come le bollette delle utenze per verificare l’effettivo utilizzo dell’immobile.

CASE ALL’ASTA

Comprare una casa tramite le aste giudiziarie può rivelarsi un’opportunità molto vantaggiosa. La ragione della convenienza, tuttavia, non è da ricercare in difetti nascosti dell’immobile o alla presenza di inquilini inamovibili ma alle norme del codice di procedura civile. Queste, infatti, consentono una diminuzione della base d’asta e, di conseguenza, un significativo deprezzamento dell’immobile. Da un’analisi svolta da “il sole 24 ore” è emerso che il prezzo medio al metro quadrato in asta è di circa 700€ mentre il mercato tradizionale si aggira intorno ai 1970€. Tale situazione risulta, quindi, svantaggiosa sia per i creditori che recuperano meno del dovuto, sia per i debitori che oltre a perdere la proprietà dell’immobile, rimangono con un debito residuo non coperto dalla vendita. Gli unici a beneficiarne sono, quindi, gli acquirenti che acquistano proprietà a prezzi ridotti e spesso la rivendono a prezzi maggiorati a seguito di un intervento edilizio o ne fanno la propria dimora a seguito di un esborso minimo. La maggior parte delle aste hanno origine da un pignoramento immobiliare o da un fallimento. La procedura prevede che, il tribunale, una volta nominato il giudice competente per l’esecuzione forzata, faccia eseguire una perizia di stima sulla casa e a seguito di essa viene determinato il valore di vendita del bene per la prima base d’asta. Il metodo più frequente di vendita è quello della cosiddetta “vendita senza incanto” ovvero con deposito delle offerte di acquisto in busta chiusa e segreta. Chiunque può fare un’offerta di acquisto: anche il creditore, pignorante o intervenuto, è legittimato a presentare l’offerta di acquisto. Il giudice nell’ordinanza di vendita dispone che la presentazione dell’offerta d’acquisto avvenga con sistemi telematici di pagamento o con altri mezzi di pagamento disponibili nei circuiti bancario e postale. Il giudice, una volta individuato l’offerta migliore, aggiudica il bene al relativo offerente. Spesso non vengono depositate offerte poiché nessuno partecipa all’asta. Così facendo si spera di risparmiare attendendo le successive aste ove il prezzo di base viene notevolmente ridotto. Se non ci sono domande di assegnazione, infatti, il giudice ordina una successiva vendita alle stesse condizioni della precedente gara con una riduzione del prezzo base fino ad 1/4. Lo scopo è quello di promuovere un rapido abbattimento del prezzo dei beni che, dopo tre ribassi, non ha ancora incontrato il favore del mercato. Chi partecipa all’asta deve avere la certezza di disporre l’intera somma necessaria avvalendosi anche di un mutuo bancario. Il tribunale, dopo aver decretato l’aggiudicazione del bene, stabilisce le modalità di versamento del prezzo e il termine perentorio e non prorogabile entro cui deve avvenire il versamento. L’ordinanza che ha disposto la vendita può anche consentire all’aggiudicato il versamento del prezzo in modo rateale a condizione che si presenti una fideiussione autonoma irrevocabile e a prima richiesta. In caso di mancato versamento del prezzo, il giudice dichiara con decreto la decadenza dell’aggiudicato e pronuncia la perdita della cauzione a titolo di multa e dispone una nuova vendita. Il mercato delle aste giudiziarie è sicuramente molto più frequente al Sud rispetto al Nord. Prima di acquistare una casa all’asta bisogna, sicuramente, assicurarsi delle condizioni dell’immobile facendolo visionare da un esperto del settore e prediligere zone dove il mercato è più fiorente in modo da ricavare il più possibile dal suddetto immobile.

LA PRESCRIZIONE DEL BOLLO AUTO

Come tutti i debiti col fisco, anche il bollo auto cade in prescrizione. Con il termine prescrizione indichiamo l’estinzione di un diritto o l’impossibilità per il suo titolare di farlo valere in giudizio. Quando il titolare di un diritto di credito non lo esercita per un certo termine, la legge non gli offre più tutela. Quindi il debitore, anche se non adempie alla propria obbligazione, non rischia alcuna azione legale o esecutiva. Il termine di prescrizione del bollo auto è di 3 anni. Sono tenuti al pagamento del bollo auto tutti coloro che risultano essere iscritti nel pubblico registro automobilistico (PRA) come proprietari, usufruttuari, acquirenti con patto di riservato dominio o utilizzatori a titolo di locazione finanziaria (leasing) di autoveicoli e di motoveicoli. Il bollo auto cade in prescrizione dopo tre anni che decorrono dal 1 gennaio dell’anno successivo a quello in cui l’imposta deve essere versata. Quindi, se entro il suddetto termine, il titolare del veicolo non riceve alcun avviso di accertamento, ovvero la richiesta per il pagamento per il bollo auto, il debito decade e questi è definitivamente libero dall’obbligo di pagamento. La richiesta di pagamento deve provenire dall’ente titolare del credito che è, solitamente, la Regione. Per Friuli Venezia Giulia e Sardegna la richiesta deve provenire dall’Agenzia delle Entrate. Se prima del terzo anno il contribuente riceve l’avviso di accertamento, la prescrizione si interrompe e inizia a decorrere da capo per altri tre anni, a partire dal giorno successivo alla data di spedizione dell’avviso stesso. Se entro tale termine l’automobilista non riceve alcun altro atto o intimazione di pagamento, il suo debito si estingue definitivamente. La Regione o l’Agenzia delle Entrate, una volta verificato l’omesso pagamento, iscrive il debito a ruolo e lo trasferisce all’Agenzia per la Riscossione Esattoriale incaricandolo del recupero del credito. A questo punto viene notificata la cartella esattoriale con l’intimazione di pagamento. Se la cartella viene spedita dopo il terzo anno dall’invio dell’avviso di accertamento, il bollo si ritiene prescritto e non va versato. La cartella andrà impugnata dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per evitare che questa si consolidi e divenga definitiva e non più contestabile. Se, dopo la notifica della cartella esattoriale ed entro i successivi tre anni, l’esattore non invia altre intimazioni di pagamento, non notifica un preavviso di fermo o non attiva un pignoramento nei confronti del debitore, il debito si prescrive. Uno di questi atti interrompe la prescrizione e la fa decorrere nuovamente da capo. La prescrizione può essere interrotta prima del terzo anno dalla notifica della cartella esattoriale da: una intimazione di pagamento, da un preavviso di fermo o da un atto di pignoramento. Se il preavviso di fermo amministrativo arriva dopo 3 anni da quando l’esattore ha notificato la cartella o l’ultima intimazione di pagamento, il fermo è illegittimo. Tale atto va impugnato entro 60 giorni dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria. Se il ricorso non interviene proposto tempestivamente, il fermo è illegittimo. Il contribuente può impugnare il preavviso di fermo che gli deve essere notificato almeno 30 giorni prima del fermo stesso. Il preavviso del fermo deve indicare le cartelle a cui si riferisce il debito. Il contribuente può chiedere anche la rateazione del pagamento per evitare il fermo o può dimostrare che il veicolo è strumentale all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale. Non rileva l’utilizzo dell’auto per il lavoratore dipendente che non potrà subire il fermo.

IL CERTIFICATO UNICO DEI DEBITI TRIBUTARI

Il certificato unico dei debiti tributari è un documento che si richiede all’Agenzia delle Entrate in grado di attestare l’esistenza di debiti tributari relativi ad imposte dirette e indirette risultanti da atti, contestazioni in corso e contestazioni già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti. Questo certificato consente di identificare le imposte contestate al contribuente e non riscosse. Il certificato può essere chiesto dal cittadino interessato a sapere qual è la propria posizione debitoria nei confronti del fisco o dal tribunale quando sono in corso procedure concorsuali che riguardano un’impresa. La domanda per il rilascio va, per l’appunto, richiesta all’Agenzia delle Entrate la quale provvederà all’emissione del documento entro 30 giorni. La legge specifica che tale certificato è utilizzabile solo ai fini delle procedure concorsuali previste dall’ordinamento giuridico come, ad esempio, la liquidazione giudiziale. La richiesta può essere presentata personalmente o tramite un delegato munito di delega scritta. L’istanza, già compilata, può essere presentata all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate tramite il servizio online “consegna documenti e istanze”, mediante consegna diretta a mano presso un ufficio dell’Agenzia delle Entrate, mediante raccomandata con avviso di ricevimento all’Ufficio territoriale competente o mediante PEC. L’istanza deve essere sottoscritta con firma digitale o se sottoscritta con firma autografa, dev’essere allegata una fotocopia del documento d’identità. L’indirizzo di posta certificata a cui deve essere inoltrata la richiesta è quello della direzione provinciale territoriale competente. Il certificato unico debiti tributari, come già detto, è rilasciato entro 30 giorni dalla data in cui la richiesta è pervenuta all’Agenzia delle Entrate.