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IL MEDIATORE

La figura dell’agente immobiliare è fondamentale quando si parla di compravendita immobiliare. Egli deve garantire all’acquirente che l’immobile oggetto della compravendita sia privo di ipoteche e pignoramenti. L’agente immobiliare, ovvero il mediatore, ha il compito di facilitare la compravendita di immobili, agendo come intermediario tra venditore e acquirente. Il mediatore vanta il diritto alla provvigione da entrambe le parti. Il pagamento è dovuto quando le parti sottoscrivono un atto giuridicamente vincolante: il compromesso prima e la compravendita poi. Se una delle due parti, dopo aver firmato il compromesso, viene meno alla conclusione dell’affare, il mediatore avrebbe comunque diritto a essere pagato. Anche il mediatore, come il notaio, ha il compito di controllare che l’immobile promesso in vendita sia libero da ipoteche e pignoramenti, Inoltre ha l’obbligo di controllare l’identità del proprietario affinché l’atto non sia nullo. Il ruolo dell’agente non si estende al controllo dettagliato delle conformità urbanistiche e catastali dell’immobile: il mediatore quindi, se il venditore dichiara l’assenza di abusi edilizi, non è tenuto a verificare la veridicità di questo a meno che l’acquirente non glielo chieda espressamente, Una sentenza del Tribunale di Varese si è espressa in merito in questa casistica. Secondo la sentenza, una volta che il venditore dichiara la conformità catastale dell’appartamento e il mediatore non effettua tale controllo, egli deve informare l’acquirente che, se vuole, può incaricare un tecnico per le dovute verifiche, La sentenza in questione ha stabilito, quindi, che nel caso in cui il proprietario della casa dichiari l’assenza di abusi edilizi, il mediatore perde il diritto alla provvigione se non informa l’acquirente di non aver verificato l’attendibilità delle dichiarazioni del venditore stesso. Il mediatore è tenuto a un generale dovere di correttezza e trasparenza. Anche se non ha ricevuto un incarico specifico per controllare la regolarità urbanistica e catastale, deve informare l’acquirente qualora non sia in grado di confermare le dichiarazioni del venditore. La fiducia dell’acquirente nelle informazioni del mediatore è fondamentale e qualsiasi violazione può portare a conseguenze legali e alla perdita della provvigione. Se il mediatore infrange la regola di condotta, può essere condannato al risarcimento dei danni subiti dall’acquirente. Se il contratto definitivo non viene concluso a causa delle irregolarità dell’immobile, l’acquirente può rifiutare di pagare la provvigione al mediatore. L’acquirente ha il diritto di essere informato su tutti gli aspetti dell’immobile comprese le eventuali irregolarità. In caso di omessa informazione, può esercitare il diritto di recesso e chiedere il risarcimento dei danni. La sentenza, infatti, sottolinea l’importanza dell’informazione completa e corretta nel processo di compravendita immobiliare nei confronti dell’acquirente.

IMPUGNARE UN LICENZIAMENTO

Per impugnare un licenziamento occorre rispettare i termini e delle procedure previste dalla legge. La violazione, anche di un solo giorno, degli stessi, comporta la decadenza da ogni tutela. Per impugnare un licenziamento occorrono due attività fondamentali: la fase stragiudiziale, costituita da una lettera di contestazione generica inviata all’azienda, e la fase processuale, costituita dal deposito del ricorso in tribunale con conseguente avvio della causa. Il licenziamento può essere impugnato entro 60 giorni dalla sua comunicazione. Il dipendente, l’avvocato o il sindacalista (muniti di apposita procura) devono inviare al datore di lavoro una comunicazione tramite raccomandata o tramite PEC con cui comunicano l’intenzione di opporsi al licenziamento. Questa non è necessaria nel caso di licenziamento verbale. Essa dev’essere consegnata all’ufficio postale entro il sessantesimo giorno decorrente da quando il lavoratore ha ricevuto il licenziamento. Se questi era assente, si prende in considerazione il giorno in cui il postino ha depositato nella cassetta delle lettere ‘avviso di giacenza. I sessanta giorni decorrono dal ricevimento della comunicazione del licenziamento, non dalla cessazione del rapporto di lavoro: il mancato rispetto del termine di decadenza per impugnare il licenziamento impedisce di richiedere il risarcimento del danno. Entro i 180 giorni successivi alla spedizione della lettera di contestazione, l’avvocato deve eseguire il deposito del ricordo in tribunale o la comunicazione di un tentativo di conciliazione o arbitrato. Anche in questo caso il rispetto del termine è fondamentale per l’accoglimento del ricorso. Se la conciliazione o l’arbitrato sono rifiutati o se non si raggiunge un accordo, il ricorso al giudice dev’essere depositato entro 60 giorni. Il lavoratore può agire in giudizio entro 5 anni per far dichiarare l’inefficacia del licenziamento. Se il lavoratore sostiene di esser stato licenziato oralmente, spetta al datore di lavoro dimostrare l’esistenza e l’efficacia del licenziamento formale.

CONIUGI CON RESIDENZE DIVERSE

L’imu, ovvero l’imposta municipale sugli immobili, è un argomento che interessa molti contribuenti. La legge prevede per l’esenzione del pagamento solo per l’abitazione principale, ovvero quella che è sia residenza del proprietario ma anche dimora abituale. La residenza deve risultare dai certificati anagrafici ed è un dato formale che si ottiene presentando un’apposita domanda al Comune. La dimora abituale è un concetto di fatto: essa consiste nel luogo ove il contribuente vive per gran parte dell’anno. A differenza della residenza, per la dimora non esiste un vero e proprio certificato che dimostri la residenza: una prova potrebbero essere le bollette delle utenze che attestino i vari consumi. Può succedere che, all’interno di una coppia sposata, il marito e la moglie abbiano entrambi un immobile di proprietà. In questo caso i coniugi possono liberamente scegliere quale dei due immobili sarà sottoposto all’Imu tramite una dichiarazione fatta al Comune. Se due persone conviventi posseggono un immobile a testa, l’esenzione Imu spetta solo sulla casa in cui almeno un membro della famiglia risiede e dimora abitualmente. La sentenza 209/2022 della corte costituzionale ha rivisto l’interpretazione dell’Imu per le coppie con residenze separate. Prima di questa sentenza, i coniugi avevano diritto ad una sola esenzione. Ora, invece, è sufficiente che i presupposti di legge sussistano per il proprietario dell’abitazione. Entrambi i coniugi sono esentati dall’Imu se possono dimostrare di avere la residenza nell’immobile e di dimorare abitualmente in tale immobile di residenza. E’ il caso, ad esempio, di coniugi che vivono separati per ragioni lavorative. Non è possibile ottenere l’Imu nella casa, ad esempio, delle vacanze poiché mancherebbe il presupposto della dimora abituale. Per avere la doppia esenzione è fondamentale, quindi, dimostrare la residenza anagrafica e la dimora abituale dell’immobile. Il comune può, infatti, richiedere prove come le bollette delle utenze per verificare l’effettivo utilizzo dell’immobile.

CASE ALL’ASTA

Comprare una casa tramite le aste giudiziarie può rivelarsi un’opportunità molto vantaggiosa. La ragione della convenienza, tuttavia, non è da ricercare in difetti nascosti dell’immobile o alla presenza di inquilini inamovibili ma alle norme del codice di procedura civile. Queste, infatti, consentono una diminuzione della base d’asta e, di conseguenza, un significativo deprezzamento dell’immobile. Da un’analisi svolta da “il sole 24 ore” è emerso che il prezzo medio al metro quadrato in asta è di circa 700€ mentre il mercato tradizionale si aggira intorno ai 1970€. Tale situazione risulta, quindi, svantaggiosa sia per i creditori che recuperano meno del dovuto, sia per i debitori che oltre a perdere la proprietà dell’immobile, rimangono con un debito residuo non coperto dalla vendita. Gli unici a beneficiarne sono, quindi, gli acquirenti che acquistano proprietà a prezzi ridotti e spesso la rivendono a prezzi maggiorati a seguito di un intervento edilizio o ne fanno la propria dimora a seguito di un esborso minimo. La maggior parte delle aste hanno origine da un pignoramento immobiliare o da un fallimento. La procedura prevede che, il tribunale, una volta nominato il giudice competente per l’esecuzione forzata, faccia eseguire una perizia di stima sulla casa e a seguito di essa viene determinato il valore di vendita del bene per la prima base d’asta. Il metodo più frequente di vendita è quello della cosiddetta “vendita senza incanto” ovvero con deposito delle offerte di acquisto in busta chiusa e segreta. Chiunque può fare un’offerta di acquisto: anche il creditore, pignorante o intervenuto, è legittimato a presentare l’offerta di acquisto. Il giudice nell’ordinanza di vendita dispone che la presentazione dell’offerta d’acquisto avvenga con sistemi telematici di pagamento o con altri mezzi di pagamento disponibili nei circuiti bancario e postale. Il giudice, una volta individuato l’offerta migliore, aggiudica il bene al relativo offerente. Spesso non vengono depositate offerte poiché nessuno partecipa all’asta. Così facendo si spera di risparmiare attendendo le successive aste ove il prezzo di base viene notevolmente ridotto. Se non ci sono domande di assegnazione, infatti, il giudice ordina una successiva vendita alle stesse condizioni della precedente gara con una riduzione del prezzo base fino ad 1/4. Lo scopo è quello di promuovere un rapido abbattimento del prezzo dei beni che, dopo tre ribassi, non ha ancora incontrato il favore del mercato. Chi partecipa all’asta deve avere la certezza di disporre l’intera somma necessaria avvalendosi anche di un mutuo bancario. Il tribunale, dopo aver decretato l’aggiudicazione del bene, stabilisce le modalità di versamento del prezzo e il termine perentorio e non prorogabile entro cui deve avvenire il versamento. L’ordinanza che ha disposto la vendita può anche consentire all’aggiudicato il versamento del prezzo in modo rateale a condizione che si presenti una fideiussione autonoma irrevocabile e a prima richiesta. In caso di mancato versamento del prezzo, il giudice dichiara con decreto la decadenza dell’aggiudicato e pronuncia la perdita della cauzione a titolo di multa e dispone una nuova vendita. Il mercato delle aste giudiziarie è sicuramente molto più frequente al Sud rispetto al Nord. Prima di acquistare una casa all’asta bisogna, sicuramente, assicurarsi delle condizioni dell’immobile facendolo visionare da un esperto del settore e prediligere zone dove il mercato è più fiorente in modo da ricavare il più possibile dal suddetto immobile.

LA PRESCRIZIONE DEL BOLLO AUTO

Come tutti i debiti col fisco, anche il bollo auto cade in prescrizione. Con il termine prescrizione indichiamo l’estinzione di un diritto o l’impossibilità per il suo titolare di farlo valere in giudizio. Quando il titolare di un diritto di credito non lo esercita per un certo termine, la legge non gli offre più tutela. Quindi il debitore, anche se non adempie alla propria obbligazione, non rischia alcuna azione legale o esecutiva. Il termine di prescrizione del bollo auto è di 3 anni. Sono tenuti al pagamento del bollo auto tutti coloro che risultano essere iscritti nel pubblico registro automobilistico (PRA) come proprietari, usufruttuari, acquirenti con patto di riservato dominio o utilizzatori a titolo di locazione finanziaria (leasing) di autoveicoli e di motoveicoli. Il bollo auto cade in prescrizione dopo tre anni che decorrono dal 1 gennaio dell’anno successivo a quello in cui l’imposta deve essere versata. Quindi, se entro il suddetto termine, il titolare del veicolo non riceve alcun avviso di accertamento, ovvero la richiesta per il pagamento per il bollo auto, il debito decade e questi è definitivamente libero dall’obbligo di pagamento. La richiesta di pagamento deve provenire dall’ente titolare del credito che è, solitamente, la Regione. Per Friuli Venezia Giulia e Sardegna la richiesta deve provenire dall’Agenzia delle Entrate. Se prima del terzo anno il contribuente riceve l’avviso di accertamento, la prescrizione si interrompe e inizia a decorrere da capo per altri tre anni, a partire dal giorno successivo alla data di spedizione dell’avviso stesso. Se entro tale termine l’automobilista non riceve alcun altro atto o intimazione di pagamento, il suo debito si estingue definitivamente. La Regione o l’Agenzia delle Entrate, una volta verificato l’omesso pagamento, iscrive il debito a ruolo e lo trasferisce all’Agenzia per la Riscossione Esattoriale incaricandolo del recupero del credito. A questo punto viene notificata la cartella esattoriale con l’intimazione di pagamento. Se la cartella viene spedita dopo il terzo anno dall’invio dell’avviso di accertamento, il bollo si ritiene prescritto e non va versato. La cartella andrà impugnata dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria entro 60 giorni per evitare che questa si consolidi e divenga definitiva e non più contestabile. Se, dopo la notifica della cartella esattoriale ed entro i successivi tre anni, l’esattore non invia altre intimazioni di pagamento, non notifica un preavviso di fermo o non attiva un pignoramento nei confronti del debitore, il debito si prescrive. Uno di questi atti interrompe la prescrizione e la fa decorrere nuovamente da capo. La prescrizione può essere interrotta prima del terzo anno dalla notifica della cartella esattoriale da: una intimazione di pagamento, da un preavviso di fermo o da un atto di pignoramento. Se il preavviso di fermo amministrativo arriva dopo 3 anni da quando l’esattore ha notificato la cartella o l’ultima intimazione di pagamento, il fermo è illegittimo. Tale atto va impugnato entro 60 giorni dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria. Se il ricorso non interviene proposto tempestivamente, il fermo è illegittimo. Il contribuente può impugnare il preavviso di fermo che gli deve essere notificato almeno 30 giorni prima del fermo stesso. Il preavviso del fermo deve indicare le cartelle a cui si riferisce il debito. Il contribuente può chiedere anche la rateazione del pagamento per evitare il fermo o può dimostrare che il veicolo è strumentale all’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale. Non rileva l’utilizzo dell’auto per il lavoratore dipendente che non potrà subire il fermo.

IL CERTIFICATO UNICO DEI DEBITI TRIBUTARI

Il certificato unico dei debiti tributari è un documento che si richiede all’Agenzia delle Entrate in grado di attestare l’esistenza di debiti tributari relativi ad imposte dirette e indirette risultanti da atti, contestazioni in corso e contestazioni già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti. Questo certificato consente di identificare le imposte contestate al contribuente e non riscosse. Il certificato può essere chiesto dal cittadino interessato a sapere qual è la propria posizione debitoria nei confronti del fisco o dal tribunale quando sono in corso procedure concorsuali che riguardano un’impresa. La domanda per il rilascio va, per l’appunto, richiesta all’Agenzia delle Entrate la quale provvederà all’emissione del documento entro 30 giorni. La legge specifica che tale certificato è utilizzabile solo ai fini delle procedure concorsuali previste dall’ordinamento giuridico come, ad esempio, la liquidazione giudiziale. La richiesta può essere presentata personalmente o tramite un delegato munito di delega scritta. L’istanza, già compilata, può essere presentata all’ufficio dell’Agenzia delle Entrate tramite il servizio online “consegna documenti e istanze”, mediante consegna diretta a mano presso un ufficio dell’Agenzia delle Entrate, mediante raccomandata con avviso di ricevimento all’Ufficio territoriale competente o mediante PEC. L’istanza deve essere sottoscritta con firma digitale o se sottoscritta con firma autografa, dev’essere allegata una fotocopia del documento d’identità. L’indirizzo di posta certificata a cui deve essere inoltrata la richiesta è quello della direzione provinciale territoriale competente. Il certificato unico debiti tributari, come già detto, è rilasciato entro 30 giorni dalla data in cui la richiesta è pervenuta all’Agenzia delle Entrate.

LA PENSIONE DI REVERSIBILITA’

La pensione di reversibilità è una forma di sostegno pensionistico rivolto ai familiari di superstiti di un pensionato o di un lavoratore deceduto. Anche nel 2024 vale la regola per cui c’è un limite alla cumulabilità tra i redditi del coniuge superstite e la pensione di reversibilità a lui riconosciuta. La normativa riconosce al coniuge superstite il diritto al 60% della quota di pensione maturata o percepita dal dante causa, quota che sale all’80% in presenza di un figlio e del 100% in presenza di due figli. Quando ci soni figli non ci sono limiti alla cumulabilità con gli altri redditi percepiti diversamente quando del caso singolo coniuge. La normativa, infatti, stabilisce che quando i redditi percepiti sono superiori a 3 volte il valore del trattamento minimo scatta una decurtazione della pensione di reversibilità tanto maggiore quanto più è elevato il reddito. I tagli alla pensione di reversibilità sono applicati nel seguente modo: tra le 3 e le 4 volte il trattamento minimo (soglia 23345,73 – 31127,64 euro) scatta una decurtazione del 25%; tra le 4 e le 5 volte il trattamento minimo (soglia 31127,64 e 38909,55 euro) la decurtazione è del 40% mentre sopra le 5 volte (soglia di 31127,64 euro) il taglio è del 50%. Ai fini della cumulabilità della pensione di reversibilità con altri redditi si considerano tutti quelli assoggettabili a Irpef al netto dei contributi previdenziali e assistenziali, con esclusione dei trattamenti di fine rapporto e anticipazioni. Con la sentenza 162 del 30 giugno 2022 la Corte Costituzionale ha posto un limite ai tagli della pensione di reversibilità stabilendo che l’importo non può essere decurtato di una somma che super l’ammontare complessivo dei redditi aggiuntivi: in presenza di altri redditi, quindi, la pensione di reversibilità può essere decurtata solo fino a concorrenza dei redditi stessi.

LAVORI DI RISTRUTTURAZIONE CONDOMINIALI

L’approvazione dei lavori di ristrutturazione all’interno dei condomini è spesso fonte di complesse vicende giudiziarie. Il Tribunale di Bari, con la sentenza n.4236 del 26 ottobre 2023, ha stabilito che le delibere assembleari che incidono su beni esclusivi sono nulle senza il consenso diretto del condominio interessato. Analizzando in breve la casistica, l’assemblea condominiale aveva deliberato l’esecuzione di lavori di manutenzione straordinaria sul terrazzo di un condominio che minacciava di danneggiare gli appartamenti sottostanti a causa di infiltrazioni di acqua. Le spese in questione venivano addebitate in parte al condominio e in parte al proprietario ma poiché quest’ultimo non aveva ottemperato al pagamento delle relative quote, il condominio agiva nei suoi confronti per il recupero del credito con un decreto ingiuntivo. Contro l’ingiunzione di pagamento il condominio proponeva opposizione che il giudice accoglieva sulla base del principio che l’assemblea di condominio non può imporre lavori nelle proprietà private, neanche se questi sono necessari o urgenti. Solo la magistratura, infatti, può imporre un’opera sulla proprietà esclusiva, non il condominio che è un soggetto privato. Infatti l’assemblea condominiale ha il potere di gestire i beni e i servizi comuni e non può deliberare interventi su beni esclusivi salvo ottenere il consenso del proprietario. Anche la Cassazione ha decretato la nullità della delibera avente ad oggetto manutenzioni sulla proprietà privata adottate in assenza dell’autorizzazione del condomino titolare esclusivo del bene. La decisione dell’assemblea sarebbe invalida perché va oltre i poteri che la legge le attribuisce: i poteri del condominio non possono invadere la sfera di proprietà dei singoli condomini. Quindi la delibera è nulla e può essere impugnata senza limiti di tempo, in qualsiasi momento. Nel caso dei balconi, invece, l’assemblea condominiale può intervenire sulle parti che svolgono una funzione ornamentale e contribuiscono ad abbellire il palazzo come parapetti, fioriere in cemento e frontalini. Tali beni sono condominiali perché fanno parte del decoro architettonico che è un bene comune. Solo di essi il condominio ha il potere di deliberare i lavori di manutenzione ponendo le spese a carico di tutti i condomini secondo millesimi, anche quelli con balconi non interessati ai lavori.

DIMISSIONI PER GIUSTA CAUSA

Quando un dipendente lascia il lavoro a causa di una grave violazione del contratto si parla di dimissioni per giusta causa. Le dimissioni per giusta causa non richiedono, a differenza delle dimissioni rassegnate per altri motivi, il periodo di preavviso per cui il dipendente può smettere di lavorare fin dal giorno successivo e richiedere l’indennità di disoccupazione Naspi. Le dimissioni volontarie per giusta causa richiedono, tuttavia, una valida motivazione. Le ragioni possono variare ma devono comunque rientrare nei criteri previsti dalla legge e dal contratto collettivo nazionale: il datore di lavoro, infatti, ove ritenga non ci siano validi motivi, può contestare le dimissioni. Le ragioni che spingono un dipendente a specificare che si tratta di dimissioni per giusta causa sono due: non dover osservare alcun preavviso e mantenere il diritto alla Naspi. Il lavoratore e il datore di lavoro potrebbero avere pareri discordanti: per questo motivo è importante attenersi a quanto stabilito dalla normativa. Secondo la normativa, l’inadempimento del datore deve essere così grave da non consentire di proseguire il rapporto di lavoro. Le ragioni che potrebbero far scattare la giusta causa sono diverse come stipendio non pagato, ripetuti ritardi nei pagamenti, discriminazione sul luogo di lavoro, violazione dei diritti del lavoratore (violenze o molestie sul posto di lavoro), cambiamenti unilaterali nel contratto di lavoro senza il consenso del dipendente e mobbing. Tra i casi in cui il dipendente è autorizzato a dimettersi c’è il mancato pagamento dello stipendio. La Corte di Cassazione ha riconosciuto il mancato pagamento dello stipendio come un grave inadempimento che da risoluzione immediata del rapporto di lavoro. La giurisprudenza ha chiarito che l’arretrato di una sola retribuzione non è sufficiente per far scattare le dimissioni per giusta causa. La sentenza n.150/2017 ha chiarito, infatti, che servono almeno due mensilità per far scattare le dimissioni per giusta causa. Potrebbe accadere che sia lo stesso Ccnl a stabilire che il dipendente sia autorizzato a dimettersi immediatamente in caso di ritardo nel pagamento delle retribuzioni: in questo caso il lavoratore potrà licenziarsi già dall’11 giorno del mese in cui avrebbe dovuto ricevere lo stipendio, come chiarito dal tribunale di Milano nella sentenza 1713/2017. Se il datore di lavoro non versa i contributi previdenziali o assistenziali, le omissioni giustificano le dimissioni per giusta causa del lavoratore. Questa casistica viene meno se il fatto è stato a lungo accettato dal lavoratore. Le dimissioni per giusta causa possono essere giustificate anche dal fatto che il datore di lavoro tenga un comportamento ingiurioso verso il dipendente. Le dimissioni per giusta causa si considerano legittime a seguito della pretesa del datore di lavoro di prestazioni illecite del dipendente ovvero di comportamenti illeciti o in contrasto con la legge. La Cassazione reputa legittime le dimissioni per giusta causa in caso di molestie sessuali perpetrate dal datore di lavoro nei confronti del dipendente. Per molestie sessuali si intendono i comportamenti lesivi e molesti riguardanti la sfera sessuale ovvero comportamenti indesiderati a connotazione sessuale espressi in forma fisica, verbale o non verbale che hanno lo scopo di violare la dignità della persona. Anche il demansionamento del dipendente può legittimare le dimissioni per giusta causa del lavorare. Per demansionamento si intende uno svuotamento del numero e del contenuto delle mansioni, tale da determinare un pregiudizio al bagaglio professionale del lavoratore. Tuttavia, una recente sentenza della Cassazione stabilisce che adibire il lavoratore a mansioni inferiori è legittimo se costituisce una alternativa alla perdita del posto di lavoro. L’assegnazione a un inquadramento inferiore può essere attuata anche senza bisogno di un accordo in caso di modifica dell’organizzazione aziendale che ricada sulla posizione del dipendente. Le dimissioni per giusta causa sono legittime in caso di mobbing. Con il termine mobbing intendiamo tutti quei comportamenti vessatori, reiterati e duraturi, individuali o collettivi rivolti nei confronti di un lavoratore ad opera di superiori gerarchici o colleghi. Affinché si possa configurare il mobbing, devono esserci comportamenti di carattere persecutorio, comportamenti attuati con intento vessatorio contro la vittima in modo diretto, sistematico e prolungato nel tempo. L’intento persecutorio e la volontà lesiva devono essere riscontrabili in tutti i comportamenti. Deve essere presente un danno alla salute, alla personalità o alla dignità. Infine, tra il danno e i comportamenti deve esistere un rapporto causa-effetto. Per le dimissioni per giusta causa non c’è una procedura specifica da seguire. Queste, quindi, rientrano nella procedura telematica prevista dall’articolo 26 del D.Lgs 151/2015: per rassegnare le dimissioni bisogna servirsi dell’apposito servizio sul sito clic lavoro del ministero del lavoro. Il datore di lavoro può contestare le ragioni del lavoratore e chiedere che riconosca l’indennità di mancato preavviso. In caso di ricorso contro le dimissioni per giusta causa, sarà il lavoratore a dover provare quanto affermato in sede di dimissioni.

L’ACQUISTO DELLA CASA

L’acquisto di una casa rappresenta un momento cruciale nella vita di molte persone. Scegliere a chi intestare la proprietà, se si è in una relazione di coppia, può essere comunque complicato. L’intestatario dell’immobile è colui che risulterà l’esclusivo proprietario sulla quale graveranno gli obblighi patrimoniali e le responsabilità e risulta tale dal cosiddetto “atto di provenienza”, ovvero il rogito che ha decretato il passaggio di proprietà. Poiché ogni cittadino risponde con tutto il patrimonio, presente e futuro dei debiti contratti, è sempre opportuno scegliere un soggetto che svolge un’attività priva di rischi. L’intestatario è anche l’unico che può trasferire il bene ai propri eredi. Vi è una grande differenza tra l’acquisto di una casa prima del matrimonio o dopo di esso. Quando una casa viene acquistata prima del matrimonio, essa non entra mai nel regime patrimoniale. Il regime patrimoniale indica l’insieme delle regole relative ai rapporti patrimoniali tra coniugi. In assenza di una scelta diversa, al momento del matrimonio, si instaura la comunione legale dei beni e tutto ciò che viene acquistato durante il matrimonio è di proprietà di entrambi i coniugi. E’ possibile optare, anche, per la separazione dei beni, in forza della quale ciascun coniuge resta proprietario di ciò che compra con il proprio denaro. Essa può risultare da una una scelta fatta all’atto del matrimonio o in un momento successivo tramite atto notarile. La legge, infatti, permette ai coniugi di rivedere le scelte fatte in precedenza: entrambi i coniugi potranno rivolgersi ad un notaio per esprimere le loro volontà mediante un atto pubblico. Tuttavia gli acquisti fatti prima del matrimonio restano di proprietà dell’acquirente indipendentemente dal regime patrimoniale scelto al momento del matrimonio. Gli acquisti fatti dopo il matrimonio seguono una regola diversa a seconda del regime patrimoniale scelto: in caso di comunione dei beni l’immobile è in comproprietà tra i coniugi ove ognuno vi è titolare al 50%. La comunione è inscindibile se non con la morte o la separazione. In caso di separazione dei beni, l’immobile è di proprietà di chi ha sottoscritto il contratto di compravendita anche se costui potrebbe comunque cointestare il bene al proprio coniuge. Per quanto riguarda le donazioni e le successioni, esse non entrano mai nella comunione dei coniugi anche se i relativi beni vengono trasferiti dopo il matrimonio. Nel caso di matrimonio con separazione dei beni, l’acquisto di un immobile da parte di un singolo coniuge egli sarà il titolare esclusivo. Se la coppia decide di lasciarsi, la casa torna al proprietario. Tuttavia, nel caso in cui i coniugi abbiano figli minori o maggiorenni non ancora maggiorenni, il giudice attribuirà il diritto di abitazione nella casa coniugale al genitore che ha in affido la prole. E’ possibile anche escludere una casa acquistata durante il matrimonio dalla comunione legale dei beni: entrambi i coniugi dovranno recarsi insieme da un notaio e insieme fare la dichiarazione di esclusione della casa dalla comunione dei beni.