Il decreto legislativo n. 151 del 2001, disciplina il “Testo unico a tutela della maternità e paternità”. Quest’ultimo sancisce il divieto di affidare un’attività lavorativa alla donna in gravidanza nei due mesi che precedono il parto, anche se la lavoratrice può chiedere di lavorare più a lungo se le sue condizioni lo consentono e se non ha una mansione che comporti un rischio per lei e per il bambino. Significa che, in questo caso, la lavoratrice rientrerà più tardi dal congedo obbligatorio dopo il parto.
Il datore di lavoro ha il dovere, inoltre, di rendere più agevoli le condizioni di lavoro della donna incinta, assicurandole una protezione dall’inizio della gravidanza fino ai sette mesi di età del figlio.
È inoltre assolutamente vietato, al fine della sicurezza della lavoratrice, adibire la stessa al trasporto e al sollevamento pesi, a lavori pericolosi, faticosi e insalubri.
Il datore di lavoro ha inoltre l’obbligo di analizzare le condizioni in cui operano le lavoratrici in maternità ed i rischi di esposizione ad eventuali agenti chimici, fisici e biologici. È necessario, dunque, qualora è possibile, modificare temporaneamente le condizioni della lavoratrice e l’orario di lavoro. Se ciò non è possibile bisogna affidare, temporaneamente, una mansione meno rischiosa per la futura mamma.
Ma non sol: la lavoratrice in gravidanza ha diritto a permessi retribuiti per sottoporsi ad esami prenatali o a visite mediche specialistiche.
La giurisprudenza stabilisce che, da quando la donna scopre di essere incinta fino al compimento di un anno di età del bambino è vietato adibire le donne al lavoro dalle 24 alle 6, indipendentemente dal settore di impiego.
È molto importante, infine, che il datore di lavoro comunichi alle donne in gravidanza, nel documento di valutazione sulla sicurezza sul posto di lavoro, i rischi specifici che potrebbero correre nello svolgimento della loro attività e i rimedi da adottare per azzerarli.
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