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BONUS 800 EURO PER GENITORI SEPARATI E DIVORZIATI: COME FARE PER OTTENERLO?

Il 26 ottobre è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto attuativo che concede ai genitori separati o divorziati di ottenere un bonus di € 800 finalizzato a garantire il mantenimento dei figli minori.

Ad aver diritto al bonus sono i genitori separati o divorziati che devono provvedere al mantenimento dei figli conviventi minorenni o maggiorenni con handicap grave, e che non hanno ricevuto l’assegno a causa dell’inadempienza dell’ex partner e genitore del figlio.

Il bonus è riconosciuto in caso di inadempienze legate a difficoltà collegate all’emergenza Covid come in caso di cessazione, riduzione o sospensione dell’attività lavorativa dell’ex, a decorrere dall’8 marzo e per almeno 90 giorni; o di riduzione del reddito pari almeno al 30 per cento rispetto a quello percepito nel 2019.

Il richiedente potrà beneficiare del bonus esclusivamente in caso di reddito inferiore o uguale all’importo di 8.174 euro.

Ad aver diritto al bonus sono quindi i genitori con reddito basso e che non hanno ricevuto l’assegno di mantenimento, o l’hanno ricevuto in misura parziale, nel periodo compreso tra l’8 marzo 2020 e il 31 marzo 2022, data di cessazione dello stato di emergenza Covid.

L’importo da erogare è parametrato a quello non versato dell’assegno di mantenimento di cui è titolare il richiedente, fino ad un massimo di 800 euro al mese e per 12 mensilità.

Al fine dell’erogazione bisognerà considerare il numero dei beneficiari e le risorse complessivamente disponibili, pari a 10 milioni di euro.

Sarà possibile fare domanda mediante il portale del Dipartimento per le politiche della famiglia.

Si attende quindi che venga lanciata la relativa piattaforma per capire in che modo procedere.

NASCONDERE UN TESTAMENTO: COSA SI RISCHIA?

L’articolo 490 del codice penale prevede un reato a carico di chi distrugge, sopprime o nasconde un testamento che pertanto può essere denunciato e, in conseguenza di ciò, dovrà affrontare un processo penale.

Secondo la Corte di Cassazione l’erede testamentario, che sopprima il testamento olografo, risponde del reato di «Soppressione, distruzione e occultamento di atti veri». L’erede, infatti, abbia o meno accettato l’eredità, non ha diritto di distruggere il testamento stesso, del quale non ha potere esclusivo di disposizione, ma è tenuto viceversa a provvedere a renderlo pubblico, appena abbia notizia della morte del testatore.

Il reato in questione si configura, quasi sempre, in presenza di un testamento olografo visto che quello pubblico è custodito da un notaio ed è  registrato.

Il reato scatta anche quando il reo ha il sospetto che si tratti di un testamento falso o invalido. Chi, ad esempio, trova un testamento redatto da una persona in età anziana, probabilmente incapace di intendere e volere, non può comunque strapparlo ma deve ugualmente consegnarlo a un notaio per la sua pubblicazione. Sarà poi l’accertamento del a stabilire se il testamento sia valido o meno.

Il reato scatta anche quando si distrugge o si occulta una copia del testamento, sempre che non si tratti di una banale fotocopia. A riguardo è necessario sapere che il testatore che voglia fare più copie del proprio testamento non può limitarsi a fotocopiare l’originale. Esso  deve scrivere invece, di proprio pugno, tanti duplicati per quante sono le copie che vuole realizzare, seguendo gli stessi passi e riproducendo lo stesso contenuto del testamento in questione. In pratica, il documento va riscritto integralmente dall’inizio alla fine, con data e firma.

Tuttavia non è facile punire chi nasconde o distrugge un testamento se non vi sono altre copie in circolazione. E ciò perché, chiaramente, la prova della condotta delittuosa potrebbe essere assai difficile una volta venuto meno il documento in questione.

A questo punto, dinanzi a un testamento occultato, in assenza di prove del reato, scatteranno le norme sulla divisione del patrimonio secondo la cosiddetta successione per legge. Nel caso in cui il defunto non abbia lasciato testamento o questo non venga mai trovato, la divisione dell’eredità viene fatta seguendo una linea di successione in ordine di priorità.

PUO’ ESSERE REVOCATO L’ASSEGNO DI DIVORZILE IN CASO DI EREDITA’?

Dopo la fine del matrimonio l’ex coniuge privo dei mezzi di sostentamento può chiedere ed ottenere che l’altro gli versi un contributo monetario (periodico oppure una tantum) per raggiungere l’autosufficienza economica.

Attenzione, però, a non confondere l’assegno divorzile con il mantenimento. Quest’ultimo, infatti, può essere riconosciuto solo nel corso della separazione per garantire al coniuge privo di redditi propri il medesimo tenore di vita goduto durante le nozze.

Non esiste una formula per determinare l’importo esatto che può essere riconosciuto all’ex coniuge. Tuttavia esistono dei parametri ben precisi che il giudice deve prendere in considerazione per calcolare l’ammontare dell’assegno divorzile, come i motivi che hanno spinto i coniugi a lasciarsi per sempre, la durata del matrimonio, i redditi sia del marito sia della moglie e, soprattutto, l’apporto personale ed economico fornito da entrambi.

È bene sapere che l’assegno divorzile non è collegato al criterio del tenore di vita  ma ha una natura perequativa, compensativa ed assistenziale. In pratica, serve a garantire i mezzi di sostentamento all’ex coniuge che per vari motivi si trova in difficoltà economica e non è in grado di mantenersi da solo. Ma cosa accade se quando si percepisce l’assegno divorzile si riceve un’eredità da un parente?

In casi del genere, l’ex coniuge obbligato alla corresponsione dell’assegno può rivolgersi al giudice per chiedere una revisione oppure una revoca dell’importo precedentemente stabilito.

In conclusione, la revoca è ammessa se il soggetto obbligato dimostra che, successivamente alla sentenza che ha riconosciuto il diritto all’assegno divorzile, sono sopraggiunti fatti nuovi che hanno determinato un netto miglioramento delle condizioni economiche del beneficiario, come ad esempio una cospicua eredità.

IL CONVIVENTE PUO’ABITARE LA CASA DEL COMPAGNO DEFUNTO?

Quando si parla di conviventi si intende una coppia che non ha formalizzato la propria unione né con il matrimonio (se eterosessuali) né con l’unione civile (se omosessuali), ma ha scelto di vivere come se fosse una coppia sposata.

Tuttavia, la convivenza, per produrre gli effetti previsti dalla legge, deve essere certificata. In pratica, la coppia deve recarsi presso il Comune di residenza e dichiarare di abitare nello stesso appartamento. A questo punto, una volta effettuati i controlli di rito, viene rilasciato un certificato di residenza e lo stato di famiglia.

Coloro che, invece, non vogliono registrare il proprio legame restano una “coppia di fatto” con la conseguenza di non godere di una serie di diritti che vedremo a breve.

Tra i diritti dei conviventi c’è anche quello di continuare ad abitare la casa familiare in caso di morte del partner proprietario dell’immobile. Tale beneficio, valevole anche in presenza degli eredi, è soggetto a dei limiti.

Secondo la legge, infatti, il convivente superstite può restare nella casa:

  • per altri due anni, ma non più di cinque in assenza di figli;
  • per un periodo non inferiore a tre anni in presenza di figli minori o disabili.

Scaduto il termine, l’immobile passa agli eredi del defunto (ad esempio ai figli, ai genitori, ai fratelli, ecc.), i quali possono anche metterlo in vendita. In tal caso, il convivente superstite può essere preferito in caso di più potenziali acquirenti.

Se, invece, la casa familiare è condotta in locazione, in caso di morte di uno dei due conviventi l’altro può succedergli nel contratto.

Il diritto di abitazione, però, viene meno se il superstite cessa di vivere nella casa di Comune residenza oppure se si sposa, inizia una nuova convivenza di fatto oppure contrae unione civile.

Nell’ipotesi in cui l’immobile è di comproprietà, gli eredi del defunto ed il convivente superstite possono accordarsi. Nel senso che una delle parti può versare all’altra la somma necessaria per avere la proprietà esclusiva, oppure si può vendere l’appartamento per poi spartire il ricavato o ancora si può instaurare un rapporto di locazione.

Infine, va precisato che per le coppie che non hanno formalizzato la propria unione dinanzi all’ufficiale di Stato civile del Comune, la giurisprudenza ha riconosciuto che una volta deceduto il partner proprietario della casa, il superstite può restare nell’abitazione solamente il tempo necessario per trovare un’altra sistemazione.

COME PROTEGGERE IL PATRIMONIO IN CASO DI DIVORZIO

Quando si interrompe un matrimonio le conseguenze si ripercuotono anche sul patrimonio dei coniugi. Da quel momento ciò che prima era della famiglia, dovrà essere ridistribuito. Oltre all’assegno di mantenimento, necessario a conservare lo status economico, occorre porre la necessaria attenzione anche sulla conservazione del patrimonio e della casa.

La giurisprudenza prevede che i figli debbano essere mantenuti da entrambi i genitori fino al raggiungimento dell’indipendenza economica, che può avvenire anche dopo il raggiungimento della maggiore età.

La scelta in merito al regime patrimoniale deve essere fatta durante la celebrazione del matrimonio. In mancanza di una dichiarazione in merito da parte dei coniuge, viene applicata sempre la comunione dei beni. Una delle caratteristiche principali di questo regime patrimoniale consiste nel fatto che i beni acquistati durante il matrimonio divengono comuni ad entrambi i coniugi, anche se è intervenuto solo uno dei coniugi all’atto di acquisto. Fanno parte della comunione tutti quei beni che sono stati acquistati congiuntamente o separatamente dai coniugi dopo il matrimonio.

Alternativamente a questo, la legge permette l’applicazione del regime patrimoniale di separazione. In questo caso i coniugi mantengono separati i rispettivi patrimoni. Ciascun coniuge rimane proprietario dei beni che possedeva prima del matrimonio e di quelli che acquista successivamente.

In caso di separazione o divorzio, le conseguenze sul patrimonio familiare sono legate al fatto che i coniugi si siano uniti in regime di comunione o di separazione dei beni.

L’art.177 c.c. prevede che costituiscono oggetto della comunione:

  • i beni acquistati, insieme o separatamente, durante il matrimonio ad esclusione di quelli personali
  • i frutti dei beni propri di ciascun coniuge, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione
  • i proventi dell’ attività separata di ciascun coniuge, se non consumati al momento dello scioglimento della comunione
  • le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.

Non rientrano, invece, nella comunione i beni ricevuti in donazione o in eredità e i beni ricevuti a titolo di risarcimento danni.

Con la separazione dei coniugi decade il regime della comunione dei beni e pertanto tutti i beni devono essere divisi in parti uguali tra i coniugi, inclusi i debiti, come per esempio un mutuo. I beni indivisibili per natura, sono oggetto di vendita e il ricavato viene diviso equamente. Qualora, invece, i coniugi hanno scelto il regime della separazione dei beni, le controversie che potrebbero insorgere sono poche perché ognuno resta titolare dei propri beni.

Nel momento in cui i due coniugi decidono di lasciarsi, in mancanza di accordo tra di loro, è il giudice a regolare i loro rapporti, tenendo conto che il coniuge con il reddito più elevato paghi all’ex coniuge un assegno di mantenimento a meno che non sia giovane e formato da poter trovare un’occupazione; la casa coniugale è affidata al genitore con cui vivranno i figli, anche se questi non ne è il proprietario ed i coniugi hanno scelto la separazione dei beni.

Se ci troviamo nel caso in cui un coniuge sia il proprietario esclusivo dell’immobile e non ci sono figli a carico l’assegnazione della casa andrà quasi sicuramente a lui. Tuttavia, in casi di gravi condizioni di salute del coniuge non proprietario che non gli consentono di allontanarsi, le cose potrebbero andare in maniera diversa e potrebbe continuare a mantenere un diritto di abitazione.

Se però, sono presenti figli, l’interesse prioritario è il loro. Al momento della separazione, il tribunale assegna la casa coniugale al genitore con cui andranno a convivere i figli, anche se non ne è il proprietario .

Nel caso di separazione o divorzio in presenza di mutuo sulla casa coniugale, per la Banca non ha importanza chi avrà il diritto di abitazione, ma colui con cui ha stipulato il contratto di mutuo. Il mutuo è considerato un contratto autonomo rispetto a quello coniugale.

Dunque, anche in caso di rottura del vincolo matrimoniale matrimoniale le condizioni contrattuali restano le medesime. Tuttavia, il Giudice potrebbe intervenire per garantire una maggior tutela di uno dei due coniugi o dei figli.

CONIUGE CON DEBITI: COSA RISCHIA L’ALTRO CONSORTE?

In caso di debiti di uno solo dei coniugi all’interno di un matrimonio, la prima cosa da fare è verificare il regime patrimoniale prescelto al momento delle nozze.

Se la scelta fatta è quella relativa al regime della separazione dei beni, l’altro coniuge non ha nulla da temere. Ciascun soggetto resta titolare dei beni da questi acquistati dopo il matrimonio ma anche dei relativi debiti.

I creditori, sia per i debiti contratti nel periodo antecedente il matrimonio quanto quelli sorti in un momento successivo, potranno rivalersi solo sui beni del debitore e non anche su quelli dell’altro coniuge. Se però si accetta di fare da garante al coniuge per un contratto di mutuo o di prestito,  tale qualifica fa sì che il coniuge non indebitato risponda, con tutti i propri beni, dell’inadempimento del debitore principale.

Stessa cosa potrebbe accadere se la coppia in separazione dei beni decide di cointestare un bene ad entrambi i coniugi, ad esempio una casa. In questo caso il creditore del coniuge debitore potrebbe decidere di pignorare integralmente il bene cointestato per metterlo all’asta. Il ricavato però dovrà essere diviso con il coniuge non debitore, al quale andrà una percentuale del ricavato pari alla propria quota.

Cosa succede invece, se si opta per il regime della comunione dei beni all’atto del matrimonio?

In questo caso, i creditori di uno dei due coniugi può rivalersi sui beni rientranti nella comunione medesima. Vi rientrano tutti gli acquisti fatti dopo il matrimonio, anche se con il denaro di un solo coniuge. Ne restano invece esclusi gli acquisti anteriori al matrimonio, le donazioni e le successioni anche successive al matrimonio, i risarcimenti del danno e i beni acquistati dalla vendita di quelli appena indicati.

La possibilità del creditore di rivalersi sui beni della comunione resta comunque limitata solo al 50% del loro valore. Similmente infatti a quanto visto sopra in caso di separazione dei beni con la casa cointestata, il creditore potrà pignorare integralmente il bene della comunione, metterlo all’asta e poi ripartire a metà il ricavato con il coniuge non debitore, trattenendo per sé invece la quota relativa al coniuge debitore.

L’assoggettabilità al pignoramento di tutti i beni rientranti nella comunione vale sia per i debiti anteriori che quelli successivi al matrimonio.

Dunque è bene sapere che chi decide di sposare una persona che aveva già dei debiti e decide di adottare il regime della comunione dei beni, deve sapere che i creditori del proprio coniuge potranno pignorare i beni che saranno acquistati durante il matrimonio, anche se con i propri soldi. Attenzione però: il pignoramento  sarà pari a metà del valore del bene.

MUTUO E MANTENIMENTO: QUANTO IL PRIMO INFLUISCE SULL’ALTRO?

Il giudice può decidere di ridurre l’ammontare dell’assegno di mantenimento che il genitore deve versare in favore dei figli qualora questi stia già pagando un mutuo sulla casa dove la ex moglie vive insieme ai figli stessi.

Infatti, l’assegnazione della casa  garantisce un beneficio economico per l’ex coniuge. Motivo per cui, l’assegno di mantenimento per i figli deve fare i conti con le effettive capacità reddituali del soggetto obbligato.

Il giudice deve anche impedire che il coniuge titolare del mutuo possa risultare moroso nel pagamento delle rate, subendo così il pignoramento della casa da parte dell’istituto di credito che aggraverà le condizioni economiche dell’obbligato.

Dunque, l’ammontare del mantenimento dei figli deve tener conto di una valutazione comparativa della capacità economico reddituale delle parti. L’ammontare degli alimenti deve essere infatti proporzionale a tale capacità.

Bisogna poi tener conto anche delle capacità della donna che non lavora: se questa risulta ancora giovane e in grado di produrre reddito alla luce dell’età, il mantenimento potrebbe essere addirittura escluso.

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QUANDO E’ POSSIBILE DONARE UNA CASA AL PROPRIO FIGLIO SENZA ATTO NOTARILE

Quasi tutti sappiamo che il modo più semplice per donare una casa al proprio figlio è quello di recarsi dal notaio e sottoscrivere una donazione. Si tratta di un contratto con cui il genitore, senza ricevere nulla in cambio, regala l’immobile di cui è titolare al proprio figlio.

La donazione rappresenta a tutti gli effetti un anticipo sull’eredità: ciò che il figlio riceve in donazione dal padre, infatti, andrà calcolato nella propria quota legittima al momento della morte dei propri genitori.

Ma è possibile donare una casa al proprio figlio senza dover necessariamente passare dal notaio?

Se parliamo di donazione senza dover redigere un atto notarile, allora ci riferiamo alla donazione indiretta. In sostanza, i genitori non acquistano la casa per poi donarla al figlio, ma gli regalano i soldi che serviranno affinché lo stesso possa acquistarne direttamente una da intestare a proprio nome.

Questo tipo di donazione non richiede il notaio solamente se, al momento dell’acquisto dell’immobile, venga dichiarato all’interno del rogito che è stato utilizzato il denaro ricevuto in regalo dai propri genitori.

Anche se è vero che in questo caso non è necessaria la figura del notaio per la donazione, questo servirà comunque per l’atto di compravendita del figlio che, grazie ai soldi dei genitori, può acquistare la casa.

Altro modo utilizzato per donare una casa al figlio senza andare dal notaio, è la cessione con obbligo di mantenimento.

Si tratta di un contratto con il quale un soggetto trasferisce un bene ad un altro che, in cambio, si impegna ad assisterlo per tutta la durata della sua vita.

Con questo accordo, l’ acquirente non paga un prezzo ma si obbliga ad eseguire a titolo di corrispettivo delle prestazioni di mantenimento che si sostanziano in obblighi di “dare” (fornire alimenti, medicinali, vestiario, ecc.) e di “fare” (assistenza, pulizia della persona e della casa, compagnia, ecc.).

Anche la cessione con obbligo di mantenimento necessita della figura di un notaio per essere formalizzata.

Altro stratagemma utilizzato per donare una casa al figlio senza andare dal notaio è quello di ricorrere al cosiddetto contratto per persona da nominare.

Succede quando i genitori possono acquistare un immobile riservandosi, entro tre giorni dalla conclusione del contratto, di nominare il figlio affinché prenda il loro posto all’interno dell’accordo. Così facendo, l’acquirente finale risulterà a tutti gli effetti essere il figlio, anche se sono stati utilizzati i soldi dei genitori.

Anche in questo caso però, occorre la presenza del notaio se l’acquisto ha ad oggetto un immobile.

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QUANDO E’ POSSIBILE ANNULLARE UN MATRIMONIO?

Quando una coppia decide di sposarsi per costruire una comunione di vita materiale e spirituale, incombe in una serie di diritti e doveri reciproci, come ad esempio l’obbligo di fedeltà, di coabitazione, di assistenza morale e materiale.

Per contrarre matrimonio è necessario: avere la maggiore età, la capacità di intendere e di volere,   la libertà di stato, la diversità di sesso, l’assenza di condanne penali per omicidio tentato o consumato a danno del coniuge dell’altro e l’assenza di legami di parentela, affinità, adozione o filiazione.

È bene sapere che non esistono diversi tipi di matrimonio, cambia solo il rito con cui lo stesso viene celebrato. È possibile scegliere tra:

  • il rito civile: il matrimonio viene celebrato in Comune dinanzi al sindaco oppure un suo delegato. In tal caso, le nozze sono regolate interamente dalla legge dello Stato;
  • il rito concordatario: è il classico il matrimonio celebrato in chiesa dinanzi al parroco. In questa ipotesi, le nozze sono valide sia per lo Stato sia per la Chiesa;
  • il rito religioso: è il matrimonio celebrato in chiesa, ma non trascritto nel registro di Stato civile quindi non produce effetti nel nostro ordinamento;
  • il rito acattolico: con questa espressione si intende il matrimonio celebrato da un ministro di culto non cattolico ammesso dallo Stato che, se regolarmente trascritto, produce anche effetti civili.

È difficile annullare un matrimonio concordatario o religioso in quanto la Chiesa, considera il matrimonio un sacramento indissolubile. Tuttavia, quando il consenso degli sposi risulta viziato, è possibile chiedere la dichiarazione di nullità.

Dunque, il matrimonio religioso può essere annullato in caso di:

  • esclusione di una delle finalità essenziali: come la procreazione dei figli, la fedeltà, l’indissolubilità del vincolo matrimoniale;
  • errore sull’identità o sulla qualità del coniuge;
  • violenza o timore;
  • mancanza di consenso da parte di uno dei coniugi, compresa la riserva mentale e la simulazione.

Ma come procedere per annullare il matrimonio celebrato in Chiesa?

Innanzitutto è necessario rivolgersi ad un avvocato ecclesiastico, il quale, una volta valutati i presupposti per ottenere la nullità, deve preparare il cosiddetto libello, cioè l’atto introduttivo su cui è riportata per iscritto la storia della coppia, dal fidanzamento alle nozze. Tale atto deve essere depositato presso il tribunale ecclesiastico regionale del luogo di residenza della parte convenuta o del luogo di celebrazione del matrimonio. A questo punto, il vicario giudiziale designa un collegio composto da tre giudici, i quali avranno il compito di valutare gli elementi di prova, quindi sentire i coniugi e i testimoni. Tutte le udienze si svolgono in privato ed in assenza di pubblico.

Se la richiesta è ritenuta valida, il matrimonio canonico viene annullato.

Ma attenzione: la sentenza ecclesiastica non produce effetti nell’ordinamento italiano fino a quando non viene resa esecutiva attraverso il giudizio di delibazione.

È  necessario, quindi, rivolgersi alla Corte d’Appello competente per territorio, la quale deve procedere ad accertare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale.

Soltanto dopo questo procedimento le parti sono libere di sposarsi una seconda volta in chiesa.

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CONVIVENZA: PUO’ ESSERE TUTELATA?

Sono ormai all’ordine del giorno le coppie che scelgono  di non sposarsi e di convivere. Molti sanno che con la convivenza, purtroppo, non si acquisiscono gli stessi diritti che si hanno con il matrimonio. Dunque, come tutelarsi? Anche se non si è convolati a nozze, è possibile disciplinare gli aspetti patrimoniali del rapporto. Vediamo come.

Sappiamo tutti che la convivenza è un rapporto che si instaura tra due persone maggiorenni che    condividano lo stesso tetto, siano unite da un rapporto sentimentale, non siano legate da un vincolo di matrimonio o di unione civile e che non abbiamo alcun rapporto di parentela, affinità o adozione.

Ma quale tutela è prevista a favore delle coppie non sposate?

I conviventi hanno la facoltà di rendere una dichiarazione congiunta all’ufficio Anagrafe del proprio Comune al fine di ottenere il certificato di residenza e lo stato di famiglia. Un simile adempimento riconosce alla coppia i seguenti diritti:

  • visita al partner detenuto in carcere;
  • assistenza al convivente ricoverato in ospedale e possibilità di ottenere informazioni sul suo stato di salute;
  • subentro nel contratto di locazione in caso di morte del partner intestatario;
  • partecipazione alla gestione dell’attività dell’impresa familiare;
  • assistenza morale e materiale da parte del convivente;
  • risarcimento del danno in caso di morte del compagno a causa di illecito di terzi;
  • assegno periodico in caso di cessazione della convivenza a condizione che si versi in stato di bisogno al punto da non avere mezzi di sostentamento.

Ciascuna coppia può decidere di stipulare un contratto di convivenza. Si tratta di un documento che regoli gli aspetti patrimoniali della vita in comune, come ad esempio la contribuzione alle spese della famiglia, la rappresentanza in caso di malattia, l’uso della casa, gli acquisti compiuti durante la convivenza, ecc.

Una volta redatto, il contratto di convivenza va registrato al Comune di residenza dei due conviventi.

Anche per la convivenza, in presenza di figli valgono le stesse regole per le coppie sposate in termini di mantenimento e affidamento. In caso di separazione, l’ex convivente economicamente più forte sarà tenuto a corrispondere all’altro un assegno periodico nell’interesse della prole.

Ma quali sono i diritti che non spettano ai conviventi?

  • il diritto all’assegno di mantenimento;
  • il diritto all’eredità del partner a meno che non sia stato redatto un testamento;
  • l’obbligo di fedeltà con la conseguenza che in caso di tradimento, il partner non può chiedere al giudice l’addebito della separazione;
  • la pensione di reversibilità del convivente defunto;
  • l’adozione di minori.

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