Archivio per Categoria CONSULENZA PENALE E AMMINISTRATIVA

PROCESSO TELEMATICO DAVANTI AL GIUDICE DI PACE

È partito da pochi giorni il progetto Estensione del Processo Civile Telematico ai Giudici di Pace previsto dalla riforma Cartabia. Il progetto ha dato avvio al valore legale delle comunicazioni/notificazioni telematiche, la disponibilità della funzionalità di deposito nelle varie fasi processuali per gli attori esterni e la realizzazione di un Portale dei Giudici a supporto dell’attività giudiziaria dei Magistrati Onorari. È stata attuata una duplice soluzione applicativa: SIGP a uso delle Cancellerie degli Uffici dei Giudici di Pace e ampliato funzionalmente il “Portale dei Giudici di Pace”. Questo portale consente la firma digitale dei procedimenti da parte dei Giudici di Pace tramite la firma remota Multisign da richiedere tramite il canale IR. È stata, inoltre, prevista anche la firma tramite dispositivo SmartCard e la firma tramite dispositivo personale di firma digitale. Per consentire ai giudici di pace di lavorare sono stati acquistati dal ministero 6712 pc portatili.

LE NOVITÀ DELLA MINI RIFORMA DEL PROCESSO TRIBUTARIO.

A partire dal 1 Luglio le liti fiscali per le cause inferiori a 5000€ saranno gestite da un giudice monocratico e le relative udienze si svolgeranno, a partire dal 1 Settembre 2023, sempre in modalità telematica. La competenza scatterà in merito ai ricorsi presentati dal 1 Luglio 2023. La previsione è contenuta nella mini riforma del processo tributario: l’art 8 comma 4 della legge 31 Agosto 2022 ha disposto l’efficacia del nuovo articolo 4 del decreto legislativo 546/1992. La competenza del giudice monocratico inizialmente faceva riferimento ad una diversa soglia dei contenziosi tributari, ovvero un importo inferiore a 3000€. Con la modifica apportata dall’art 40 del decreto legge 13/2023 la soglia del valore è mutata da 3000€ a 5000 EURO. Poiché la norma opera autonomamente, il difensore non dovrà intestare il ricorso al giudice monocratico in quanto sarà già assegnato ad esso. Il nuovo art 4 bis ha anche stabilito che le controversie di valore indeterminato rimarranno di competenza del giudice a composizione collegiale. Il valore della lite verrà calcolato sulla base del nuovo principio dell’imposta virtuale. L’errata individuazione del valore della causa avrà come conseguenza l’invito al ricorrente a integrare il pagamento del contributo unificato. L’assegnazione della causa al giudice competente sarà a carico delle strutture della Corte di giustizia tributaria.

SI PUO’ EREDITARE L’USUFRUTTO?

L’usufrutto è un diritto che consente a una persona diversa dal proprietario di usare un bene e godere dei suoi frutti. È un diritto per sua natura temporaneo e termina alla data di scadenza pattuita o al verificarsi di determinate circostanze:
– prescrizione del diritto dopo 20 anni di mancato utilizzo,
– consolidazione, ovvero l’acquisto da parte dell’usufruttuario del bene oggetto dell’usufrutto,
– perimetro totale del bene,
– abuso del diritto di usufrutto, ovvero quando l’usufruttuario non adempie ai suoi doveri e agisce oltre i limiti consentiti dal suo diritto;
– rinuncia dell’usufruttuario.
Quando nessuna di queste condizioni si verifica e le parti non hanno stabilito una scadenza, il diritto di usufrutto mantiene il suo carattere di temporaneità e si estingue alla morte dell’usufruttuario.
L’estinzione del diritto di usufrutto impedisce all’usufruttuario di trasmetterlo ai suoi eredi quindi ne consegue che l’usufrutto non è ereditabile. Esso, tuttavia, è cedibile ma si estingue in ogni caso alla morte del cedente e primo usufruttuario. Si considera l’usufrutto intrasmissibile con l’eredità facendo riferimento al diritto di usufrutto del defunto. Nulla vieta però di creare con il testamento un diritto di usufrutto in favore degli eredi su uno o più beni appartenenti al patrimonio ereditario. Quindi si può ereditare l’usufrutto quando il testamento lo costituisce su un bene del patrimonio ereditario. Al contrario, non si può ereditare il diritto di usufrutto di cui era titolare il defunto su un bene altrui.
Tra i vari poteri riconosciuti al titolare di un diritto di proprietà vi è proprio la costituzione del diritto di usufrutto, che può essere eseguito tramite il testamento.
In assenza di quest’ultimo, a nessun erede viene riconosciuto il diritto di usufrutto sui beni ereditari, ma se ne trasmette la proprietà in modo proporzionale alle quote ereditarie. Anche il diritto di abitazione del coniuge superstite non rappresenta un usufrutto e ha come principale differenza l’impossibilità di cessione del diritto. Tramite il testamento è possibile conferire agli eredi il diritto di usufrutto su qualsiasi bene ereditario purché infungibile o inconsumabile. Data la temporaneità di questo diritto, l’usufruttuario è tenuto a restituire il bene alla scadenza.
Ricordiamo usufruttuario e proprietario non possono mai coincidere: con l’acquisto della proprietà cessa il diritto di usufrutto. È quindi utile prevedere l’usufrutto nel testamento quando per legge o volontà del testatore stesso, ci sono già una o più persone a cui spetta il diritto di proprietà.
Tramite la costituzione testamentaria dell’usufrutto è possibile assolvere a due funzioni:
– riesce a evitare il trasferimento di proprietà del bene a una persona, garantendole al contempo la possibilità di utilizzarlo;
– deroga all’inviolabilità delle quote di legittimità senza possibilità di opposizioni.

INTERROMPERE LA PRESCRIZIONE CIVILE

La prescrizione comporta che dopo un certo periodo di tempo dall’accadimento di un illecito o di un reato, la persona che lo ha compiuto non possa più essere condannata per quello. 

Vediamo quindi quali sono i metodi più semplici da utilizzare per interrompere la prescrizione.

Interrompere la prescrizione è molto importante per ottenere la tutela giuridica di un proprio diritto, ad esempio un diritto di credito. La diffida è un mezzo molto efficace a questo scopo ed è anche piuttosto semplice da attuare. Per scrivere una diffida, infatti, non servono particolari competenze e non è nemmeno indispensabile farsi assistere da un avvocato.

I punti che la diffida deve contenere per interrompere efficacemente la sospensione sono:

  • Generalità del creditore o soggetto che ha subito una lesione dei propri diritti;
  • generalità del debitore/soggetto che ha commesso l’illecito;
  • prestazione richiesta in modo specifico (pagamento, interruzione di un certo comportamento eccetera),
  • causa che dà origine all’obbligazione (come un contratto, un prestito, un danno a cui segue il risarcimento o semplicemente la legge in via generica per quanto concerne gli illeciti);
  • termine massimo entro cui si richiede il compimento della prestazione, 15 giorni secondo il Codice civile, che possono però essere ridotti o aumentati a seconda dei casi. Per ottenere un pagamento sostanzioso il termine potrebbe elevarsi, mentre per intimare al vicino di non fare rumori durante la notte non serve nemmeno un termine.

Per sicurezza, si può poi specificare che la diffida interrompe i termini di prescrizione. Uno scritto che contiene questi dettagli è più che sufficiente a interrompere la prescrizione e non necessita di ulteriori formalità.

Il riconoscimento dell’esistenza del diritto (ammettendo l’illecito o riconoscendo il debito) comporta un’interruzione della prescrizione. Apparentemente questo mezzo non è molto utile per chi vanta un diritto, considerando che se l’altra parte non intende adempiere all’obbligazione presumibilmente lo nega.

D’altra parte, è anche frequente che il diritto venga riconosciuto inconsapevolmente, ecco perché è importante prestare attenzione ai dettagli. Per esempio, un debitore che propone una dilazione del pagamento

La notifica di un atto giudiziale: si arriva infine alle vere e proprie formalità che interrompono la prescrizione. Si tratta degli atti giudiziali, come la citazione in giudizio e il ricorso a cui si può facilmente adire con l’assistenza di un legale. Chiaramente, anche se il diritto è già stato riconosciuto i successivi atti sono utili a interrompere la prescrizione (come una condanna o un atto di pignoramento). Sono utili a questo scopo anche delle diffide inviate dall’avvocato o la partecipazione alla mediazione.

DIMISSIONI PER GIUSTA CAUSA

Si parla di dimissioni per giusta causa quando un dipendente decide di risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro a causa di una violazione grave del contratto.

A differenza delle dimissioni presentate senza alcun motivo specifico, le dimissioni per giusta causa non richiedono alcun preavviso – e quindi il dipendente può smettere di presentarsi al lavoro già nel giorno successivo alla notifica – e inoltre fanno sì che al termine del rapporto di lavoro si possa fare comunque richiesta di indennità di disoccupazione Naspi.

Ne dettaglio, le ragioni che possono far scattare la giusta causa sono diverse, ad esempio:

  • stipendio non pagato (o comunque ritardi ripetuti nei pagamenti);
  • discriminazione sul luogo di lavoro;
  • grave violazione dei diritti del lavoratore, come violenza o molestie sul posto di lavoro (non necessariamente da parte del datore di lavoro);
  • condizioni di lavoro pericolose o non conformi alle norme di sicurezza;
  • cambiamenti unilaterali, e sostanziali, nel contratto di lavoro da parte dell’azienda, senza il consenso del dipendente;
  • mobbing.

Come si comunicano?

Non c’è una procedura differente dalle altre. Anche queste rientrano nella procedura telematica prevista dall’articolo 26 del D.Lgs 151/2015: per rassegnare le dimissioni, dunque, serve usufruire dell’apposito servizio che trovate sul sito ClicLavoro del Ministero del Lavoro (per l’accesso sono necessarie le credenziali Spid o della Carta d’Identità elettronica).

Durante la procedura, però, dovete stare attenti e indicare l’opzione “dimissioni per giusta causa”, specificando la motivazione che ne dà luogo. 

Pertanto ricordiamo che Il datore di lavoro, infatti, potrebbe contestare le motivazioni date dal lavoratore, pretendendo che questo riconosca l’indennità di mancato preavviso che, ricordiamo, non è dovuta in caso di giusta causa.

In caso di ricorso contro le dimissioni per giusta causa sarà il lavoratore a dover provare quanto affermato in sede di dimissioni. E se non dovesse sussistere la giusta causa, questo pagherà le conseguenze del licenziamento in tronco.

FERIE NON GODUTE

Le ferie, sono disciplinate dalla legge, il diritto del lavoratore al godimento delle ferie è sancito infatti dall’art. 2109 del Codice Civile e regolato dal D.Lgs n.66/2003 e D. Lgs 213/2004.

Qui viene stabilito che ogni anno il lavoratore ha diritto a un minimo di 4 settimane di riposo; il numero di giorni di ferie che spettano al lavoratore può variare a seconda del Ccnl ma, in ogni caso, non può diminuire.

Di queste 4 settimane, almeno 2 devono essere godute entro l’anno di maturazione mentre le altre entro i 18 mesi successivi, salvo diverse disposizioni del Ccnl di riferimento.

Ne risulta, dunque, che:

  • le ferie non godute maturate tra l’1 gennaio e il 31 dicembre 2021 devono essere fruite entro il 30 giugno 2023;
  • le ferie non godute maturate tra l’1 gennaio e il 31 dicembre 2022 devono essere fruite entro il 30 giugno 2024;
  • le ferie non godute maturate nell’anno corrente dovranno essere fruite entro il 30 giugno 2025.

Le ferie residue non si perdono, restano ancora a disposizione del dipendente, per l’Inps è come se queste fossero state utilizzate, quindi al datore di lavoro spetta l’obbligo di versare i contributi previsti.

Ferie non godute dopo 18 mesi: le conseguenze per il datore di lavoro: sanzioni amministrative, per un importo che varia a seconda del numero di dipendenti interessati:

  • da 120 a 720 euro quando le violazioni sono relative a un solo anno e che riguardano al massimo 5 lavoratori;
  • da 480 a 1.800 euro quando violazioni si sono verificate per almeno due anni e hanno coinvolto più di 5 lavoratori;
  • da 960 a 5.400 euro quando le violazioni si sono verificate per più di 4 anni oppure hanno coinvolto almeno 10 lavoratori.

Ricordiamo che per legge le ferie non possono essere pagate finché si sta continuando a lavorare con quell’azienda o datore di lavoro.

I decreti legislativi, stabiliscono l’espresso divieto di monetizzazione durante il rapporto di lavoro per difendere il diritto alla salute del lavoratore, il quale necessita di un periodo di distacco dal posto di lavoro per recuperare le energie psico-fisiche.

L’indennità sostitutiva per le ferie non godute al termine del rapporto di lavoro viene tassata in termini fiscali e contributivi.

Permessi non goduti, Il discorso è differente, infatti la normativa vigente prevede che i permessi maturati dal lavoratore che non siano stati goduti dallo stesso entro il 30 giugno dell’anno successivo a quello di maturazione, debbano essere pagati dal datore di lavoro.

NON PRESENTARE LA DICHIARAZIONE REDDITI

Non presentare la dichiarazione dei redditi con modello 730 o con modello Redditi pone il contribuente al rischio di sanzioni amministrative ma anche penali.

quando scatta il penale? scatta in due situazioni:

  • a causa dell’inadempimento;
  • in caso d’imposta evasa (imposte sui redditi o IVA), e le ritenute non versate siano superiori a 50.000 euro. Il riferimento va inteso per singola imposta e per ciascun periodo d’imposta.

La nuova sanzione introdotta dal decreto Fiscale 2020 è la reclusione:

  • da un minimo di un anno e sei mesi al massimo di quattro anni per chi evade le imposte sui redditi o IVA e non presenta le dichiarazioni relative per imposte evase superiori a 50.000 euro;
  • da un anno e sei mesi a quattro anni al massimo per chi non presenta la dichiarazione di sostituto d’imposta, sempre quando la somma evasa supera i 50.000 euro.

Le precedenti sanzioni prevedevano la reclusione da 18 mesi a 4 anni. Anche per l’omessa presentazione si può disporre la custodia cautelare in carcere, in passato preclusa.

LITI FISCALI

Liti fiscali chiuse bypassando gli avvocati.

Per risolvere le pendenze nella cornice della tregua fiscale, l’Agenzia delle entrate, e in particolare le sue diramazioni territoriali, cioè le direzioni provinciali, starebbero inviando direttamente ai contribuenti avvisi con la proposta di chiusura della lite.

La denuncia di questa scorciatoia fiscale arriva dagli avvocati tributaristi e più nello specifico da Uncat (Unione nazionale delle Camere degli avvocati tributaristi) che ieri ha diffuso una dura nota sulla questione.

Liti fiscali chiuse bypassando gli avvocati. Per risolvere le pendenze nella cornice della tregua fiscale, l’Agenzia delle entrate, e in particolare le sue diramazioni territoriali, cioè le direzioni provinciali, starebbero inviando direttamente ai contribuenti avvisi con la proposta di chiusura della lite. La denuncia di questa scorciatoia fiscale arriva dagli avvocati tributaristi e più nello specifico da Uncat (Unione nazionale delle Camere degli avvocati tributaristi) che ieri ha diffuso una dura nota sulla questione.

Ad Uncat risulta anche che in alcune sedi viene inviata l’intimazione al pagamento della somma intera, e non frazionata come prescrive la legge in pendenza di giudizio, dopo la sentenza di primo grado non definitiva, pur in sospensione legale dei termini di impugnazione, per i contribuenti che non hanno ancora chiesto la definizione della lite in pendenza dei termini.

Uncat precisando che “si è sempre spesa per favorire la compliance con gli uffici come metodo di lavoro e nel rispetto reciproco; si è sempre impegnata a lavorare per la piena realizzazione dello Statuto del contribuente e in conformità alle norme deontologiche che disciplinano la professione dell’avvocato e che dovrebbero ispirare i difensori di tutte le parti processuali”, e chiede di sapere se vi sia stato un indirizzo da parte della direzione centrale dell’Agenzia delle entrate in questo senso, invitando in ogni caso l’amministrazione finanziaria a porre rimedio quanto prima a questa pratica.

TOGLIERE IL FERMO AMMINISTRATIVO

Per capire quanto costa togliere il fermo amministrativo è necessario dividere in due periodi temporali:

  • provvedimenti di revoca antecedenti al 31 dicembre 2019;
  • provvedimenti di revoca emessi dal 1° gennaio 2020.

La disciplina del fermo amministrativo è cambiata per effetto del decreto legislativo 98 del 2017, una norma che ristabilisce un certo equilibrio tra le parti, prevede che nel momento in cui viene meno il presupposto per l’iscrizione del fermo amministrativo al Pra, la revoca dello stesso viene effettuata d’ufficio.

In questo caso è il concessionario della riscossione a dover comunicare telematicamente al Pra che è necessario togliere il fermo amministrativo, tale norma entra però in vigore il 1° gennaio 2020, di conseguenza si applica solo agli atti di revoca emessi dopo tale data.

Ricordiamo che è possibile ottenere la sospensione, anche in seguito ad istanza per la Rottamazione quater relativa a cartelle esattoriali che hanno portato all’iscrizione del fermo. In questo caso pagando la prima rata si ottiene, senza bisogno di richiesta, la sospensione del fermo amministrativo. 

Se la revoca è avvenuta in data precedente al 1° gennaio 2020, la procedura è più complessa.

La vecchia normativa prevede infatti che la parte interessata debba notificare una richiesta di cancellazione del fermo amministrativo al Pra. L’istanza può essere presentata mediante pec o email direttamente agli uffici territoriali del Pra, rivolgendosi agli uffici Aci o presso un’agenzia di pratiche auto.

Per poter procedere è necessario avere il provvedimento di revoca o sospensione del debito che ha portato all’iscrizione, documento rilasciato dal concessionario in seguito al pagamento degli importi dovuti.

Non è più richiesta la presentazione del certificato di proprietà cartaceo o digitale del veicolo.
Per ottenere la cancellazione è inoltre necessario effettuare un versamento di 32 euro di imposta di bollo. Il fermo amministrativo può essere cancellato anche per prescrizione, ma tale istituto si applica nel momento in cui si prescrive il credito che è stato fonte dell’iscrizione.

ABBANDONO DEI RIFIUTI, QUANDO È REATO

La conseguenza immediata dell’abbandono dei rifiuti è la multa. L’abbandono dei rifiuti configura, infatti, un vero e proprio illecito (più propriamente un reato ambientale) disciplinato dal Codice dell’ambiente. In particolare, l’articolo 192 del Codice dell’ambiente vieta l’abbandono e il deposito incontrollato dei rifiuti:

  • Sul suolo;
  • nel sottosuolo;
  • nelle acque superficiali;
  • nelle acque sotterranee.

Le persone fisiche sono sanzionate con il pagamento di un’ammenda da 300 euro a 3.000.

I privati cittadini che abbandonano rifiuti pericolosi sono infatti punibili con una sanzione raddoppiata, prevista anche nel caso in cui il materiale abbandonato sia un prodotto da fumo (come un mozzicone di sigaretta).

La situazione si complica ulteriormente se a trasgredire il Codice dell’ambiente sono persone giuridiche, come le imprese, punibili con:

  • L’arresto da 3 mesi a 1 anno e l’ammenda compresa tra 2.600 e 26.000 euro in caso di rifiuti non pericolosi;
  • l’arresto da 6 mesi a 1 anno e un’ammenda invariata se gli scarti sono considerati pericolosi.

L’abbandono dei rifiuti in strada è implicitamente regolamentato dal Codice dell’ambiente, che sostanzialmente vieta il getto dei rifiuti in qualsiasi zona diversa da quelle adibite, includendo perciò anche il divieto di abbandono su strada pubblica o privata che sia. Il responsabile dell’abbandono dei rifiuti in strada soggiace quindi alle sanzioni previste dal Codice dell’ambiente, cioè all’ammenda e all’arresto se si tratta di una persona giuridica.

Anche l’abbandono di rifiuti in spiaggia è punito come qualsiasi altro genere di abbandono; tuttavia, in questo caso possono intensificarsi i rischi per il trasgressore, soprattutto se:

  • Infrange anche il divieto di fumo se previsto in modo specifico;
  • viola specifici divieti comunali riguardo alla preservazione delle spiagge.

 Le spiagge e gli stabilimenti balneari, predispongono divieti molto severi, ma oltre questo si potrebbe incorrere nel reato di inquinamento ambientale. L’articolo 452 bis del Codice penale punisce infatti chi compromette le acque, in particolar modo se nei pressi di un’area naturale protetta o sottoposta a vincoli. Questo reato, punibile con la reclusione da 2 a 6 anni e la multa da 10.000 a 100.000 euro è ovviamente relativo anche ai parchi, soprattutto se si danneggiano anche animali o vegetali protette, casi in cui la pena aumenta.

In riferimento ai parchi, poi, non è sottovalutabile il rischio incendio e l’accusa di incendio colposo, soprattutto in riferimento al getto dei mozziconi di sigaretta accesi o al bruciare dei rifiuti.