Archivio mensile Dicembre 4, 2023

VOLI CANCELLATI

A chiunque sarà capitato, almeno una volta, di recarsi in aeroporto e scoprire in loco il ritardo o la cancellazione del proprio volo. La normativa europea con regolamento 261/2004 stabilisce una serie di diritti per il passeggero che, a causa di ritardi o cancellazioni, è costretto a rinunciare al viaggio o a rimandare la partenza. Il passeggero può scegliere se ricevere un rimborso del prezzo del biglietto, imbarco sul primo volo alternativo, sistemazione in albergo, trasferimento dall’aeroporto al luogo di sistemazione e viceversa. Inoltre gli è dovuta anche la compensazione pecuniaria. L’ammontare della compensazione pecuniaria riconosciuta per legge e senza bisogno della dimostrazione di un danno varia a seconda della tratta aerea e della distanza da percorrere: per tratte pari o inferiori a 1500km è pari a 250€,per tratte superiori a 1500km è pari a 400€. Per le tratte extracomunitarie si parte da un minimo di 250€ fino ad arrivare a 600€ per tratte superiori ai 3500km. La compensazione pecuniaria non spetta nell’ipotesi in cui la compagnia area riesca a dimostrare che la cancellazione è dovuta a fattori ad essa non imputabili come condizioni meteo avverse o scioperi e se il viaggiatore è stato informato della cancellazione del volo almeno 14 giorni prima della data prevista o tra le sue settimane e i sette giorni prima della partenza a condizione che non sia stato proposto un volo alternativo che parta non oltre due ore dall’orario originale e arrivi a destinazione con quattro ore di ritardo rispetto all’orario programmato o con meno di sette giorni dalla partenza con un offerta di volo che parta circa un’ora prima e arrivi massimo due ore dopo l’orario previsto. Questi indennizzi sono previsti dalla legge e vengono erogati alla semplice esibizione del biglietto. La Corte di Cassazione, nel 2008, ha affermato che possono essere risarciti i danni morali derivanti da un reato o dalla violazione di un diritto costituzionale. Con la sentenza n. 33276 del 29 novembre, la corte di Cassazione ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno morale ad un uomo che, a causa di un volo cancellato, non ha potuto presenziare al funerale del padre. La Corte ha quindi ribadito che il risarcimento per danno non patrimoniale è possibile in quanto la lesione di diritti è ritenuta grave e non futile. Per ottenere il risarcimento è quindi necessario che: l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale, la lesione sia grave e che il danno non sia futile. Anche la corte di Giustizia UE, con sentenza C-83/10 del 13/10/211, ha stabilito che i passeggeri possono richiedere un risarcimento supplementare se la compensazione pecuniaria non copre interamente il danno subito. Il giudice deve quindi valutare se il danno morale ha superato una soglia di gravità sufficiente e l’unicità dell’evento mancato.

LA VENDITA DELLA QUOTA EREDITARIA

Si ha comunione ereditaria quando più persone ereditano insieme lo stesso patrimonio formando una “comproprietà”. In una situazione di comproprietà, ciascun erede possiede una parte ideale dell’eredità rappresentata da una quota percentuale che può essere trasferita a un altro coerede o a un terzo prima della divisione della comunione. Un coerede, quindi, può decidere di trasferire la propria quota ereditaria, o una parte di essa, ad un altro coerede. Se tutte le quote confluiscono in un solo coerede, la comunione si conclude senza bisogno di un procedimento di divisione formale. Per il trasferimento della quota ereditaria tra coeredi è necessario il notaio se essa comprende anche immobili. Per il trasferimento della quota ad un terzo esterno alla comunione ereditaria, il coerede deve rispettare il diritto di prelazione degli altri coeredi. Esso previene l’ingresso di estranei nella comunione poiché garantisce ai coeredi di essere “preferiti” rispetto a terzi a parità di condizioni economiche e contrattuali. Il coerede che desidera vendere la sua quota deve notificare formalmente la proposta agli altri coeredi specificandone il prezzo e le condizioni. La proposta è revocabile fino all’accettazione da parte degli altri coeredi che devono esprimere la loro decisione senza avviare trattative. Con la revoca, il cedente manifesta la volontà di non voler più vendere la propria quota. Il diritto di prelazione spetta se si intende vendere la quota ereditaria: il genitore che vuole regalare al figlio la propria quota ereditaria può farlo senza dover fare prima la proposta ai coeredi. Il diritto di prelazione non si applica quindi in caso di donazione e se il testatore ha diviso l’eredità tramite atto testamentario. Il diritto di prelazione è personale e non può essere trasferito agli eredi del coerede. Il coerede ha due mesi dalla notifica per accettare la proposta di cessione. L’accettazione è considerata valida nel momento in cui viene comunicata al coerede venditore. Se più coeredi esercitano il diritto di prelazione, la quota viene divisa in parti uguali tra loro. Se un coerede vende la sua quota senza rispettare il diritto di prelazione, la vendita rimane valida ma gli altri coeredi hanno il diritto di retratto, ossia possono riscattare la quota venduta al prezzo pagato dal terzo acquirente. Con il diritto di retratto, il coerede può sostituirsi all’acquirente terzo: eventuali cessioni successive perdono efficacia, indipendentemente dalla trascrizione dell’atto di vendita o dalla priorità delle trascrizioni successive.

LA PRESCRIZIONE DELLE FATTURE

Anche le fatture, rappresentando dei crediti, sono soggette a prescrizione. Questo significa che dopo un certo periodo di tempo, non possono più essere pretese dal creditore se il termine di prescrizione non sita stato interrotto da richieste di pagamento. Il tempo di prescrizione, infatti, ricomincia per ogni atto interruttivo. Conoscere i tempi di prescrizione delle fatture è fondamentale sia per i debitori per poter opporre l’intervenuta prescrizione alle richieste di pagamento ma anche per i professionisti che devono sapere entro quando intervenire per recuperare i pagamenti. La normativa generale indica come termine della prescrizione dei crediti derivanti da obbligazioni contrattuali 10 anni dalla loro emissione o richiesta di pagamento notificata. Tuttavia bisogna fare delle dovute precisazioni. Le fatture per prestazioni periodiche, dove per prestazioni periodiche si intendono fatture annuali, canoni d’affitto o bollette telefoniche, si prescrivono in 5 anni. Le fatture emesse da professioni, quali ad esempio medico, notaio, avvocato, si prescrivono dopo tre anni. In questo caso si parla di prescrizione presuntiva: la prestazione si considera pagata al trascorrere di un determinato periodo di tempo, in questo caso 3 anni. Le fatture emesse dall’agente immobiliare si prescrivono in 1 anno. Quelle emesse per trasporti, spedizioni, scuole e palestre private si prescrivono in 1 anno. Anche le fatture emesse dalle ditte di manutenzione e riparazione per lavori edili si prescrivono in 1 anno e la contestazione della fattura deve essere inoltrata dalla sede legale entro e non oltre 8 giorni dalla sua emissione. Le fatture emesse da hotel e alberghi si prescrivono dopo 6 mesi. Per interrompere la prescrizione della fattura è necessario richiedere il pagamento, con un sollecito o con una diffida, al debitore con una raccomandata a/r o tramite PEC. E’ fondamentale l’uso di questi strumenti per certificare la data di notifica della comunicazione e per escludere dubbi sulla ricezione della suddetta. Ricordiamo che, da ogni atto interruttivo, la prescrizione parte da zero. Se nonostante le richieste, il debitore non provvede al pagamento della fattura, per recuperare i soldi sarà necessario agire per vie legali rivolgendosi al giudice di pace o al tribunale ordinario per ottenere un decreto ingiuntivo e avviare una procedura di riscossione.

L’ASSEGNO DI MANTENIMENTO

A seguito della separazione, il coniuge ha l’obbligo di contribuire al mantenimento del coniuge economicamente debole. questo obbligo permane anche a seguito dello scioglimento definitivo del matrimonio tramite l’assegno divorzile. Secondo la legge, il giudice pronunciando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge non addebitante il diritto di ricevere quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. Il mantenimento serve a garantire al coniuge più debole, lo stile di vita tenuto nel corso del matrimonio. La Corte di Cassazione ha stabilito che il solo parametro del tenore di vita non può giustificare da solo la corresponsione del mantenimento. Bisogna valutare altri elementi come la durata del matrimonio, le potenzialità reddituali e l’età del coniuge. Il giudice deve considerare anche l’assegnazione della casa coniugale al coniuge beneficiario. Un coniuge senza reddito, tuttavia, potrebbe non vedersi riconosciuto il diritto all’assegno perché è ancora giovane e può trovare lavoro o magari perché il matrimonio è stato troppo breve per impedire al coniuge di intraprendere una carriera lavorativa. L’assegno di mantenimento viene meno nel momento in cui mutano le condizioni economiche che avevano giustificato la sua iniziale attribuzione: se il coniuge ricevente trova un lavoro stabile, l’assegno di mantenimento potrebbe essere revocato. Lo stesso avviene nell’ipotesi in cui il coniuge ha una relazione durativa con una terza persona con la quale va a convivere, creando di fatto, un nuovo nucleo familiare. La Corte di Cassazione si è espressa rendendo permanente la perdita del diritto all’assegno periodico di mantenimento: nel momento in cui vengono meno le condizioni per il mantenimento, questo si perde in maniera definitiva anche se in futuro l’ex beneficiario dovesse nuovamente trovarsi in uno stato di indigenza. L’assegno di mantenimento può essere revocato anche nell’ipotesi in cui sia il coniuge obbligato a non poter sostenere il pagamento, avendo, ad esempio, perso il lavoro. Il mantenimento al coniuge potrebbe, tuttavia, essere dovuto per sempre. E’ il caso di marito e moglie che restano separati per tutta la vita e che le condizioni che hanno giustificato la concessione del mantenimento a favore di uno dei due rimangano invariate. Tuttavia gli ex coniugi non possono mettersi d’accordo per un mantenimento perpetuo: il diritto all’assegno di mantenimento è indisponibile per cui le parti non possono disporne a proprio piacimento neanche trovato un accordo. Nel momento in cui viene meno lo squilibrio economico che giustificava la corresponsione del mantenimento, il coniuge interessato può fare ricorso al tribunale per chiedere la revoca o la riduzione dell’assegno periodico. L’istanza può essere fatta in ogni momento: la circostanza fondamentale è che sia provato il mutamento delle condizioni economiche che giustificarono la concessione del mantenimento.

L’OSTRUZIONISMO GENITORIALE

Non è insolito che, a seguito di una separazione, i figli diventino lo strumento della vendetta degli ex coniugi e che il genitore collocatario ostacoli le visite dell’altro genitore. Tuttavia se il calendario delle visite è stato fissato, anche genericamente, dal giudice l’ostruzionismo può avere conseguenze legali di carattere penale. Una recente corte della cassazione ricorda cosa succede se la madre non fa vedere i figli al padre. Ogni genitore ha il diritto- dovere di mantenere solidi legami con i figli rispettando il diritto alla bi-genitorialità tacitamente riconosciuto dalla Costituzione. Non ci si limita al solo mantenimento materiale ma bisogna garantire una presenza costante e amorevole. Il figlio divenuto maggiorenne può chiedere il risarcimento al genitore anaffettivo e indifferente che non abbia mai partecipato ai momenti più importanti della sua vita. Le visite concordate tra genitore e figlio sono un diritto e un dovere per il genitore. Nonostante non si possa imporre un incontro figlio- genitore, il genitore che subisce ostruzionismo può denunciare l’altro per la mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, reato sancito dall’articolo 388 del codice penale. La cassazione, con la sentenza n 47882/2023 ha stabilito che: il reato scatta anche in capo a chi elude un provvedimento del giudice assunto nella causa di separazione o divorzio personale dei coniugi o che concerni l’affidamento di minori o di altre persone incapaci. Il colpevole è punito qualora non ottemperi all’ingiunzione di eseguire il provvedimento con la reclusione fino a tre anni. L’imputato può evitare la condanna penale appellandosi al beneficio della “particolare tenuità del fatto” a patto che la condotta illecita non sia stata reiterata per più volte. Oltre alla denuncia, il padre o la madre che si vede ostacolare l’incontro con i figli, può anche agire dinanzi al tribunale civile per ottenere la collocazione presso di sé per i figli e l’affidamento esclusivo dei figli in proprio favore. In ogni caso, il giudice è tenuto ad ascoltare il figlio per conoscere il suo parere se questi abbia almeno 12 anni o se più piccolo, qualora lo ritenga capace di discernimento. L’audizione del minore è richiesta a pena di nullità dell’eventuale sentenza. Alcuni tribunali, nel garantire l’interesse superiore del figlio, non hanno accolto la richiesta di modifica della collocazione di quest’ultimo. Il padre può anche agire per il risarcimento dei danni morali conseguenti la perdita del legame con i figli se la condotta ostruzionistica della madre si è protratta per molto tempo e ha generato una alienazione genitoriale o parentale. Analizzando un caso concreto, una madre è stata condannata per aver impedito di esercitare, per quattro mesi, al padre dei suoi figli il suo diritto di visita. Per la cassazione, la donna ha violato il provvedimento giudiziario che regolamentava le visite post-separazione e costei è stata condannata penalmente escludendo l’applicazione della causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto” come previsto dall’articolo 131 bis del codice penale.

IL LAVORO INTERINALE

Il lavoro interinale è una forma di contratto di lavoro a tempo determinato che coinvolge tre “figure”: un lavoratore, un’azienda e un’agenzia che funge da intermediario. Questa tipologia di lavoro è spesso usata per affrontare esigenze aziendali specifiche in momenti di picco di lavoro o necessità temporanee. Il contratto di lavoro interinale è una forma di contratto a tempo determinato dove un’agenzia di lavoro agisce come intermediario tra il lavoratore e l’azienda che ha bisogno di personale. Questa tipologia di contratto ha quindi una struttura tripartita: il ruolo fondamentale viene svolto dall’agenzia che è l’intermediario tra il lavoratore e l’azienda e gestisce l’intera parte burocratica del contratto. Si pensi, ad esempio ad una struttura alberghiera balneare durante la stagione estiva. La legge Biagi del 2003, ha sostituito il lavoro interinale con quello in somministrazione. La struttura del contratto è rimasta invariata mentre le novità apportate riguardano le tutele dei lavoratori. I lavoratori con un contratto interinale percepiscono stipendi in linea con quanto previsto dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) di riferimento per la categoria professionale e il livello di inquadramento. Non ci sono quindi differenze retributive tra lavoratori in somministrazione e lavoratori con un contratto di lavoro subordinato. Il pagamento viene fatto dall’agenzia che deve essere informata dal datore di lavoro dell’importo dello stipendio lordo pagato ai dipendenti con mansioni analoghe. Se l’agenzia non adempie totalmente a tale obbligo, il datore di lavoro è tenuto a sostituirsi ad essa, integrando il pagamento per poi rivalersi sull’agenzia stessa. Il datore di lavoro, a sua volta, deve pagare una commissione all’agenzia che gli ha fornito il lavoratore. L’agenzia è quindi retribuita dall’azienda: questo costo non deve mai gravare sul lavoratore, neanche tramite trattenuta in busta paga. Al lavoratore, oltre allo stipendio, spettano anche Tfr e contributi previdenziali. A seguito della legge Biagi, il contratto a somministrazione può essere sia a tempo determinato che a tempo indeterminato. Nel caso di un rapporto a tempo indeterminato, l’azienda può utilizzare la somministrazione a tempo determinato per un massimo del 20% del personale assunto a tempo indeterminato. Per i contratti a tempo determinato, la durata massima è di 36 mesi ma è possibile prorogarlo per un massimo di 5 volte, dopo il contratto si trasforma automaticamente in un contratto a tempo indeterminato. Nel lavoro interinale, i lavoratori hanno gli stessi diritti riguardo ai permessi e alle norme sulla malattia previsti dal CCNL di riferimento e dalle leggi vigenti: questo significa che hanno diritto allo stesso numero di ore di permesso retribuito e ai giorni di ferie previsti dalla contrattazione collettiva. In caso di malattia, quindi, il lavoratore è tenuto ad inviare un certificato medico sia all’INPS che all’agenzia interinale. Durante il periodo di malattia, egli conserva il posto di lavoro e riceve una indennità in piena conformità alle leggi vigenti. Il lavoro interinale è una forma flessibile di contratto di lavoro che offre vantaggi sia per le aziende che per i lavoratori. Queste modalità permettono alle aziende di gestire le loro esigenze di personale in modo efficiente senza dover affrontare la ricerca e la selezione dei dipendenti in modo diretto. Per i lavoratori, offre la possibilità di acquisire esperienza in diverse aziende e settori. Lo svantaggio del lavoro interinale è senza dubbio la sua precarietà: per quanto equiparato al lavoro dipendente per ciò che riguarda diritti, retribuzione, ferie e malattia, chi accede mediante agenzia interinale difficilmente riesce a garantirsi un posto stabile. Grazie alla riforma attuata dalla legge Biagi, il lavoratore con contratto interinale ha la possibilità di essere assunto dall’agenzia a tempo indeterminato.

NO AL SALARIO MINIMO

NO AL SALARIO MINIMO

La commissione lavoro della camera dei deputati ha dato il via libera all’emendamento della maggioranza che ha cancellato la proposta di salario minimo avanzata dalle opposizioni. In questa legislatura non ci sarà, quindi, l’introduzione del salario minimo in Italia. Al suo posto viene delegata al governo la possibilità, entro 6 mesi, di approvare misure che possano garantire l’attuazione del diritto di ogni lavoratore ad una retribuzione proporzionata e sufficiente potenziando lo strumento della contrattazione collettiva. Nonostante in Italia ci siano i contratti collettivi a garantire un certo livello stipendiale, ci sono ancora molti lavoratori che guadagnano meno dei 9 euro lordi l’ora previsti dalla proposta di salario minimo firmata dall’opposizione. A questa tipologia di lavoratori vuole dare attenzione l’emendamento firmato da Walter Rizzetto, presidente della Commissione Lavoro della Camera dei Deputati. L’emendamento in questione delega al governo il diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente come sancito dall’articolo 36 della Costituzione. Al governo vengono dati 6 mesi di tempo per approvare adeguati provvedimenti volti ad assicurare ai lavoratori trattamenti retributivi giusti ed equi, contrastare il lavoro sottopagato, stimolare il rinnovo dei contratti collettivi nel rispetto delle tempistiche stabilite dalle parti sociali e contrastare il dumping contrattuale che determina fenomeni di concorrenza sleale mediante la proliferazione di sistemi contrattuali finalizzati ad abbassare il costo del lavoro e ridurre le tutele dei lavoratori. L’emendamento non elenca le misure da attuare ma si limita ad elencare una serie di principi da raggiungere come: definire i contratti collettivi più applicati in riferimento al numero di imprese e dipendenti, stabilire i settori degli appalti di servizi di qualunque tipologia con l’obbligo per le società appaltatrici di riconoscere ai lavoratori i trattamenti economici complessivi minimi non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi più applicati per la tipologia di appalto. Inoltre bisogna, secondo l’emendamento, estendere i trattamenti economici complessivi minimi dei contratti collettivi, prevedere strumenti di incentivazione atti a favorire lo sviluppo progressivo della contrattazione di secondo livello, prevedere strumenti di misurazione che si basino sulla indicazione obbligatoria del codice del contratto collettivo applicato al rapporto nei flussi UNIEMENS, introdurre strumenti di incentivazione a sostegno del rinnovo dei contratti collettivi nei termini previsti dalle parti sociali. Per ciascun contratto scaduto e non rinnovato entro i termini e per i settori nei quali manca una contrattazione di riferimento bisogna prevedere l’intervento diretto del Ministero del Lavoro. Infine, bisogna prevedere misure di rafforzamento della concorrenza e lotta all’evasione fiscale e contributiva e disciplinare i modelli di partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili di impresa. La proposta in questione non prevede quindi l’istituzione di un salario minimo uguale per tutti poiché esso dipende dal settore di appartenenza tenendo conto di quello che è lo stipendio riconosciuto dal contratto collettivo più rappresentativo.

RC AUTO COPRE I DANNI CAUSATI DA VEICOLI RUBATI?

Quando un’auto rubata diventa lo strumento per un atto vandalico, la responsabilità ricade sull’assicurazione del veicolo rubato, sul ladro, sul proprietario del mezzo o sullo stato? Sia il Tribunale di Roma, con sentenza del 30.03.2017, sia il Tribunale di Milano, con sentenza del 30.11.2005, si sono espressi al riguardo ma con conclusioni opposte. La sentenza del Tribunale di Roma del 30 marzo, presieduta dal giudice Massimo Moriconi, ipotizzando che un’auto rubata venga utilizzata con l’intento di commettere un reato, ha dichiarato che la polizza RC auto non copre i danni derivanti da azioni dolose con l’intento di causare danno poiché le polizze auto nascono per coprire danni derivanti dalla normale circolazione dei veicoli, non azioni criminali deliberate. Quindi è esclusa la copertura assicurativa in caso di dolo. Tuttavia questo principio differisce dalla precedente sentenza del Tribunale di Milano che, invece, dava un significato più ampio al termine circolazione. Per il tribunale di Roma la precedente sentenza del tribunale lombardo fornisce una interpretazione sbagliata poiché perde di vista il fondamento della legge sulla RCA che non è, per l’appunto, concepita per la tutela delle condotte dolose volontariamente dirette ad arrecare danno a terzi. Il giudice, in linea con l’articolo 1917 del codice civile e col codice delle assicurazioni private, ha stabilito che la responsabilità non può essere attribuita alla compagnia assicurativa in caso di uso doloso del veicolo né tanto meno al proprietario del veicolo rubato. La legge italiana condanna come unico responsabile l’autore del danno. Se un’auto rubata provoca danni ad un altro veicolo a seguito di un incidente stradale, la vittima può rivolgersi alla propria assicurazione per il risarcimento. Se l’auto rubata era, invece, priva di assicurazione, il danneggiato deve rivolgere la propria richiesta di risarcimento al fondo di garanzia per le vittime della strada.