Archivio mensile Novembre 30, 2023

LA DONAZIONE

La donazione è il trasferimento della proprietà di un bene (mobile, immobile o denaro) senza alcuna controprestazione. È, quindi, un contratto attraverso cui una parte trasferisce un diritto o assume un obbligo verso un’altra. È un atto generalmente irrevocabile spesso usato all’interno delle famiglie per intestare il patrimonio ad altri componenti del nucleo familiare come alternativa alla successione. La donazione si ritiene conclusa per atto pubblico alla presenza di un notaio e due testimoni: questo garantisce la validità dell’atto e protegge sia il donante sia il beneficiario. È nulla, ad esempio, la donazione di una casa con scrittura privata. Sono escluse da tale principio le donazioni di modico valore, ovvero quelle che non impoveriscono eccessivamente il donante, che possono essere fatte con scrittura privata o verbalmente o con la semplice consegna del bene. Il “modico valore” si determina in base alle condizioni economiche dl donante. Questa tipologia di donazioni riguarda solo i beni mobili e il denaro: per il trasferimento degli immobili è sempre necessario l’atto notarile. Abbiamo già detto che la donazione viene utilizzata nel contesto familiare come alternativa alla successione con testamento. La donazione è preferibile rispetto alla successione in quanto quest’ultima crea una comunione ereditaria di più soggetti sullo stesso bene, secondo quote di proprietà. Questa comunione, inoltre, richiede un apposito accordo per la divisione e crea spesso dissapori e contenziosi in tribunale che la donazione, invece, elimina a monte. È possibile una donazione con riserva di usufrutto: il donante si riserva la possibilità di continuare a vivere o di dare in affitto il bene che ha intestato ad un’altra persona. Il diritto di usufrutto può avere una specifica data di scadenza o protrarsi fino alla morte dell’usufruttuario. È nullo il patto scritto con cui una persona si impegna a donare, un bene ad un altro soggetto. La donazione è un atto istantaneo che non può essere soggetto a vincoli neanche se autoimposti dallo stesso donante. È vietato il patto di donazione di una quota ereditaria o di un bene che deriverà da una successione che non si è ancora aperta. Questa tipologia di accordi è nulla per violazione del divieto di patti successori. La donazione non può essere mai revocata tranne per: ingratitudine del donante o per sopravvenienza di un figlio. L’ingratitudine si verifica quando il donatario ha compiuto atti o tenuto comportamenti che coincidono con i casi di indegnità a succedere, si è reso colpevole di ingiuria grave nei confronti del donante, ha provocato un grave danno al patrimonio del donante o ha rifiutato di corrispondergli gli alimenti nei casi previsti dalla legge. L’ingratitudine non coincide, nel caso di una coppia sposata, con la violazione dei doveri del matrimonio. L’ingiuria grave deve consistere in un comportamento tale da rivelare un’avversione durevole, profonda, radicata e disistima delle qualità morali e mancanza di rispetto della dignità del donante. quanto alla sopravvenienza di un figlio deve trattarsi del primo figlio. La revoca della donazione non è valida se il donante ha già un primogenito e sopraggiunge l’arrivo di un secondogenito. È equiparata alla nascita la scoperta di un figlio che non si sapeva di avere, l’adozione o il riconoscimento di un figlio già nato. Per quanto riguarda il coniuge, i figli e gli ascendenti, la donazione si considera un anticipo della legittima, ovvero della quota minima che la legge riserva loro anche contro la volontà del testatore. Quando viene meno una persona, per vedere se questa ha rispettato le quote di legittima si fa una collazione: si verificano, quindi, tutti coloro che hanno ricevuto donazioni e il valore di quest’ultime. La legge, infatti, tutela i legittimari riservando loro una quota dell’eredità. In caso di lesione dei loro diritti, i legittimari possono agire in giudizio per contestare la divisione ereditaria ed eventualmente anche le donazioni fatte in vita dal defunto partendo dalle ultime fatte. Anche i terzi che acquistano la proprietà del bene dal donatario possono essere coinvolti nell’azione dei legittimari. Difatti possono richiedere la restituzione del bene al terzo acquirente. I legittimari non possono rinunciare al loro diritto di agire in giudizio mentre il donante è ancora in vita. Possono, invece, convalidare la donazione e rinunciare a contestarla solo dopo la morte del donante.

IL REGOLAMENTO CONDOMINIALE

La legge richiede, per l’approvazione del regolamento di condominio, la maggioranza dei presenti in assemblea. Tuttavia spesso succede che per l’approvazione del regolamento condominiale venga richiesta l’unanimità. La prima parte dell’articolo 1138 stabilisce che per la formazione del regolamento è obbligatoria la presenza di almeno dieci condomini. Il regolamento approvato a maggioranza può disciplinare l’uso delle cose comuni, la ripartizione delle spese secondo diritti e obblighi spettanti a ciascun condominio, la tutela del decoro dell’ufficio, l’amministrazione. Per l’uso delle parti comuni, il regolamento può stabilire le regole per il loro godimento rispettando i diritti dei condomini e la natura stessa del, bene comune. L’assemblea può rivedere l’allocazione dei posti auto ma non è autorizzata ad imporre un divieto di parcheggio. Riguardo alla distribuzione delle spese, il regolamento deve definire con precisione le modalità di ripartizione rispettando quanto stabilito dagli articoli 1123 e successivi del codice civile. In assenza di un sistema di contabilizzazione, è possibile optare per uno dei tre metodi consentiti (superfici radianti, volumi riscaldati o un criterio combinato) ma non si può introdurre un metodo nuovo. Il regolamento può determinare le modalità e i tempi di utilizzo delle aree comuni evitando di imporre divieti. Molte norme del codice civile sul condominio si applicano “salvo patto contrario”. Con questa dicitura, il codice intende riservare alla volontà unanime dei condomini la possibilità di derogare al codice civile. Si pensi ad, esempio, all’elenco dei beni comuni elencati nell’articolo 1117 del codice civile: tetto, lastrico solare, cortile, scale, adrone. Il regolamento, quindi, viene approvato all’unanimità per poter derogare la legge. Spesso viene richiesto un regolamento unanime per poter contenere limiti alle proprietà individuali come il divieto di modificare la destinazione d’uso degli appartamenti, i divieti di frazionamento o accorpamento degli appartamenti, il divieto di realizzazione di verande e chiusura dei balconi con vetrate. Quando approvato all’unanimità, il regolamento viene definito CONTRATTUALE. Il regolamento contrattuale si può verificare o con votazione in assemblea da parte di tutti i condomini o tramite allegazione ai singoli atti di vendita. In questo caso l’unanimità si realizza in momenti e luoghi diversi tra loro. Il regolamento di condominio vincola non solo i condomini che l’approvano ma anche i successivi titolari delle unità immobiliari a seguito di cessioni. L’efficacia del regolamento contrattuale nei confronti dei successivi condomini è subordinata alla sua annotazione nei pubblici registri immobiliari o alla sua allegazione nei pubblici registri immobiliari o alla sua allegazione all’atto di compravendita o donazione. La mancata trascrizione non rende nulla la clausola ma la rende inopponibile ai nuovi condomini che non la abbiano accettata. Il regolamento condominiale non può riservare la nomina dell’amministratore al costruttore: questa prassi è considerata invalida perché contravviene all’articolo 1129 del codice civile che riserva inderogabilmente la scelta dell’amministrazione all’assemblea a maggioranza dei presenti che rappresenti almeno 500 millesimi. La corte di cassazione, nella sentenza numero 13011 del 24 maggio 2013, ha chiarito che l’articolo 1138 del codice civile impedisce qualsiasi modifica al regolamento che vada contro la normativa. È nulla, quindi, una clausola che designi un soggetto specifico come amministratore per un periodo indefinito, sottraendo all’assemblea il suo diritto di scelta. Per quanto riguarda i termini per contestare le decisioni dell’assemblea, sono invalide le clausole che stabiliscono i termini inferiori a quelli previsti dall’articolo 1137 del codice civile. La cassazione, con la sentenza 19714 del 21 settembre 2020, ha sancito che è nulla la clausola di un regolamento condominiale che prevede un termine di decadenza di 15 giorni per sollevare un’impugnazione giudiziaria contro le delibere dell’assemblea poiché l’articolo 1138 del codice civile vieta modifiche alle disposizioni relative alle impugnazioni delle delibere condominiali stabilite dall’art 1137 del codice civile.

L’IPOTECA SULLA CASA

L’ipoteca è un diritto di garanzia che attribuisce al creditore il potere di espropriare il bene ipotecato, anche nel caso in cui detto bene venga successivamente ceduto a terzi. Il creditore con ipoteca di primo grado si soddisfa con preferenza rispetto ad altri eventuali creditori. L’ipoteca, tuttavia, non dura per sempre. Essa, infatti, si estingue con il pagamento del debito. Esiste, inoltre, un termine oltre il quale decade in automatico se non rinnovata dal creditore. Le cause di estinzione dell’ipoteca possono essere, ad esempio, il pagamento del debito, la rinuncia al credito da parte del creditore, il perimento del bene, la rinuncia all’ipoteca da parte del creditore e la scadenza del termine di 20 anni e la mancata rinnovazione dell’ipoteca da parte del creditore. Una ipoteca si costituisce mediante iscrizione nei registri immobiliari e ha una durata di 20 anni. Trascorso questo termine, se non rinnovata, l’ipoteca decade e il bene viene liberato dal vincolo. I 20 anni di efficacia dell’ipoteca decorrono dal momento della presentazione della nota di iscrizione, ovvero nel momento in cui nasce l’ipoteca. Allo scadere dei 20 anni  l’iscrizione si prescrive automaticamente e l’effetto dell’ipoteca cessa automaticamente senza bisogno di istanze o adempimenti. Il creditore può evitare l’estinzione dell’ipoteca rinnovandola prima che scadano i 20 anni. Se non lo fa, l’ipoteca decade ma il creditore può nuovamente iscrivere l’ipoteca se non è stato soddisfatto (se sussisteva un creditore con ipoteca di secondo grado, quest’ultima diventa di primo grado). Tuttavia se il creditore ha, nel frattempo, avviato il pignoramento immobiliare il termine ventennale scade in pendenza dell’azione esecutiva. L’iscrizione può essere rinnovata prima della scadenza per un numero illimitato di volte ma mantiene lo stesso grado se il rinnovo viene eseguito prima della scadenza del termine di 20 anni. La rinnovazione può essere eseguita anche dopo la scadenza ventennale mediante una nuova iscrizione. In caso di mancata rinnovazione delle ipoteche iscritte da 20 anni si ha la cancellazione automatica. Se più creditori hanno iscritto ipoteca sullo steso bene, esse hanno diversi gradi di priorità. In caso di esecuzione immobiliare, i creditori vengono soddisfatti nell’ordine di iscrizione. Il ricavato della vendita forzata va prima a soddisfare il creditore con l’ipoteca di primo grado e dopo, l’eventuale denaro residuo, va al creditore con l’ipoteca di secondo grado. È possibile pignorare un immobile già gravato da ipoteca: in questo caso, il creditore che ha avviato il pignoramento deve notificarlo anche al creditore ipotecario che potrà partecipare all’esecuzione forzata per salvaguardare la sua garanzia. 

BOLLETTE LUCE E GAS

Con la fine del mercato tutelato i consumatori si troveranno catapultati nel mercato libero. Cambieranno, infatti, a partire da gennaio 2024 e aprile 2024, le gestioni delle utenze di gas e luce. A partire da gennaio 2024, circa 6,1 milioni di contratti domestici di gas ancora sotto il regime di tutela, inizieranno a ricevere proposte dai fornitori per passare al libero mercato. Se non si sceglie alcuna offerta, il servizio verrà erogato con le condizioni economiche e contrattuali definite dall’autorità Placet. Le offerte Placet sono proposte a prezzo libero a condizioni equiparate di tutela, il cui prezzo è deciso liberamente dal venditore e rinnovato ogni anno. L’Arera stabilisce la struttura di prezzo e le condizioni contrattuali, garantendone la tutela. Per l’elettricità, invece, sono 9,5 milioni di utenti che dovranno passare al mercato libero. Anche in questo caso, in mancanza di una scelta volontaria, i consumatori entreranno nel servizio a tutele graduali (stg) con le condizioni stabilite dall’Arera. Il prossimo 11 dicembre si terrà un’asta per definire le utenze che passeranno a questo regime. Le condizioni del regime stg dureranno per tre anni e corrispondono a quelle delle offerte placet: anche in questo caso, quindi, le condizioni economiche e contrattuali sono stabilite dall’autorità, garantendo una tutela parziale ai consumatori. Per orientarsi nel mercato libero, l’Arera mette a disposizione il sito “ilportaleofferte.it” che consente di paragonare le diverse offerte. La scelta tra prezzo fisso o variabile dipende dalle condizioni di mercato. Nel 2022, i contratti a prezzo fisso hanno garantito tutele inferiori rispetto a quelli variabili a causa della crisi energetica. Un’attenzione particolare nel passaggio al mercato libero è rivolta ai clienti vulnerabili come ad esempio clienti over 75 anni, individui in condizioni economiche precarie, soggetti con disabilità o clienti che vivono in strutture d’emergenza a seguito di eventi calamitosi. Per i clienti che rientrano in queste categorie e che non scelgono le offerte del mercato libero, continuerà ad essere garantita la fornitura alle condizioni economiche stabilite per il servizio di tutela gas da parte dell’Autorità, con le condizioni Placet. Per quanto riguarda l’elettricità, oltre alle categorie già citate, rientrano anche coloro che si trovano in gravi condizioni di salute che richiedono l’uso di apparecchiature medico- terapeutiche alimentate da energia elettrica. Questi continueranno ad essere inclusi nel servizio di tutela anche dopo il 1° aprile 2024.

GLI AUMENTI SULLE PENSIONI MINIME

Chi possiede una pensione o un reddito molto bassi, gode di alcune maggiorazioni sociali riconosciute in base all’età anagrafica. Per maggiorazioni sociali si intendono quelle forme di incremento delle prestazioni previdenziali riconosciute in favore dei soggetti economicamente svantaggiati, a patto che abbiano compiuto 60 anni. Dopo i 60 anni vengono, quindi, riconosciuti i primi aumenti, il cui importo è destinato a crescere fino al compimento del 70esimo anno di età. Per tutto il 2023 è in programma un aumento riconosciuto anche a chi ha compiuto almeno 75 anni: si tratta di un incremento straordinario per le pensioni il cui importo non supera la soglia del trattamento minimo, pari all’1,5% per tutti e al 6,4% per gli over 75. Col passare degli anni, chi ha una pensione molto bassa gode di diversi tipi di aumento, aumenti però riconosciuti solo su richiesta dell’interessato. Il pensionato quindi, per godere di queste agevolazioni, non deve superare una determinata soglia di reddito, il cui valore è pari al trattamento minimo Inps. Nel 2023 il valore definitivo della pensione minima, come ufficializzato dal messaggio Inps n.4050 del 15 novembre è pari a 567,94 euro (7383,22 euro annui) mentre per l’assegno sociale è di 507,03 euro (6591,39 euro annui). La maggiorazione spetta quindi a chi ha un reddito personale pari o inferiore ai 7383,22 euro e coniugale pari o inferiore ai 13974,61 euro. Le maggiorazioni possono anche essere riconosciute in misura parziale, soprattutto per chi ha un reddito molto vicino alla soglia. La prima maggiorazione sociale ha un importo pari a 25,83 euro mensili e spetta tra i 60 e i 64 anni. Per averne diritto bisogna fare domanda all’Inps. Al compimento dei 65 anni, la maggiorazione sociale aumenta fino a 82,64 euro ma per coloro che hanno almeno 25 anni di contributi, spetta direttamente un aumento di 136,44 euro (diventano 124,44 euro in caso dei titolari della quattordicesima mensilità). Al compimento dei 70 anni, la maggiorazione sociale si trasforma nell’incremento al milione riconosciuto dal governo Berlusconi nel 2022, l’importo è fisso e non soggetto a rivalutazione ed è pari a 136,44 euro, ridotto a 124,44 per chi prende la quattordicesima mensilità. Il limite di 70 anni può essere anticipato, in quanto si riduce di 1 anno per ogni 5 anni di contributi fino ad arrivare a 65 anni. Al compimento dei 64 anni viene poi riconosciuta la quattordicesima mensilità, solitamente pagata a luglio, a dicembre per coloro che ne soddisfano i requisiti successivamente. In questo caso l’accredito spetta in automatico a coloro che ne soddisfano i requisiti. L’importo è, anche in questo caso, determinato dalla legge e dipende dal reddito, dagli anni di contributi e dalla gestione di appartenenza. Fino a dicembre 2023 si aggiunge, inoltre, una maggiorazione della pensione del 6,4% per coloro che hanno un assegno inferiore al trattamento minimo. Da gennaio 2024, questa maggiorazione non ci sarà più, in quanto su tutte le pensioni inferiori al minimo si aggiungerà un incremento del 2,7% indipendentemente dall’età.

VISITE FISCALI

La visita fiscale è la verifica dello stato di malattia del dipendente e la compatibilità o meno di quest’ultima con l’attività lavorativa. Gli orari delle visite fiscali sono quelle fasce orarie durante la settimana, giorni festivi compresi, in cui il medico di controllo può passare durante il periodo di malattia per accertare lo stato di salute del lavoratore. Queste visite possono essere disposte dall’Inps sia autonomamente che su richiesta del datore di lavoro solo nei casi di assenza per malattia: l’obbligo di reperibilità non sussiste per chi ha subito un infortunio di lavoro o ha contratto una malattia professionale. Rispettare gli orari delle visite fiscali è importante per il lavoratore poiché in caso contrario c’è il rischio di perdere il posto di lavoro a seguito di un licenziamento per giusta causa. Al momento non si segnalano novità per le regole fiscali ma esse comunque potrebbero subire una variazione nel 2024. Rimane quindi invariato quanto stabilito dal decreto legislativo n. 206/2017. Alla luce degli ultimi dati Inps, non sono molte le probabilità di ricevere la visita fiscale, specialmente per i lavoratori nel settore privato. Gli orari delle visite fiscali 2023 rimangono invariati: la mattina, sabato e domenica compresi, dalle 10 alle 12 e il pomeriggio dalle 17 alle 19. Per i dipendenti pubblici la mattina dalle 9 alle 13 e il pomeriggio dalle 15 alle 18. Gli orari valgono per i lavoratori della Pubblica Amministrazione, per le forze dell’ordine e per gli insegnanti. Una recente sentenza del Tar del Lazio ha ritenuto illegittima questa disparità di trattamento tra pubblico e privato ma al momento gli orari rimangono quelli appena indicati. Le visite fiscali possono essere ripetute: ciò significa che potrà esserci più di un controllo nella stessa giornata. C’è la possibilità, per il lavoratore di non rispettare la reperibilità nelle fasce stabilite. La legge riconosce questa possibilità nel caso di patologie gravi che richiedono terapie salvavita e stati patologici sottesi o connessi alla situazione di invalidità riconosciuta pari o superiore al 67%. L’esonero può avvenire anche in caso di depressione o ansia del lavoratore laddove la vita sociale e attività all’aria aperta possono contribuire al suo miglioramento o benessere. Il diritto all’esonero spetta anche al lavoratore che ha necessità di uscire di casa per accertamenti specialistici, per recarsi dal medico curante, per andare in farmacia e per interventi dentistici urgenti. La giurisprudenza ammette, tra le motivazioni di esonero, anche le attività di volontariato non legate al lavoro e visite ai parenti in ospedale qualora ci sia sovrapposizione delle fasce orarie. Sono previste sanzioni per le visite fiscali in caso in cui il lavoratore non sia reperibile presso il proprio domicilio e quando tale assenza non sia giustificata. Le sanzioni per il lavoratore assente prevedono una decurtazione del 100% dell’indennità di malattia per i primi 10 giorni e una decurtazione del 50% per le giornate successive. Il lavoratore ha 10 giorni di tempo dalla mancata visita fiscale per comunicare le motivazioni dell’assenza con una valida giustificazione. Il verbale viene inviato dal medico all’Inps e al datore di lavoro il quale potrebbe avviare un procedimento disciplinare contro il lavoratore. Lo svolgimento della visita è molto semplice: il medico deve accertare la presenza del lavoratore all’indirizzo indicato per la malattia e verificare se c’è concordanza tra la durata della malattia indicata nel certificato medico e lo stato del lavoratore al momento del controllo. Il medico può anche stabilire la guarigione anticipata e quindi il rientro a lavoro. Le possibilità di ricevere un controllo durante una malattia sono basse: nel primo trimestre del 2022 solamente per il 2,47% delle volte è stata prevista una visita fiscale.  Nel settore pubblico la percentuale è del 6,47% mentre nel privato si attesta intorno all’1,26%.

FERIE NON GODUTE

Ogni dipendente, salvo che il contratto collettivo nazionale preveda un trattamento più favorevole, ha diritto ad almeno 4 settimane di ferie all’anno. Di queste quattro settimane, due devono necessariamente essere godute nell’anno in cui sono maturate e, ove possibile, in via continuativa. Le altre due possono essere godute nell’arco dei 18 mesi successivi all’anno di maturazione delle suddette. Il dipendente non può mai rinunciare alle ferie in quanto esse sono un diritto indisponibile: il datore di lavoro e il lavoratore non possono accordarsi per una riduzione o una rinuncia alle ferie in cambio di un indennizzo o di una maggiorazione dello stipendio. Nel caso in cui il datore di lavoro neghi le ferie retribuite previste dalla legge, il lavoratore deve rivolgersi alla Direzione Territoriale del Lavoro. L’unico caso in cui il diritto alle ferie può essere monetizzato è quando il rapporto di lavoro cessa in corso dell’anno prima che le ferie maturate siano godute. Se il datore di lavoro licenzia il dipendente, egli può obbligare il dipendente a prendere le ferie pagandogli regolarmente lo stipendio prima di risolvere il rapporto di lavoro. Se invece è il dipendente a dimettersi, il datore di lavoro è tenuto a pagargli una indennità per ferie non godute. Questo diritto è stato ribadito dalla Cassazione con ordinanza n.32807 del 27.11.2023. Il diritto a tale indennità si prescrive dopo 10 anni per cui il dipendente, prima di tale termine, deve esigere formalmente il pagamento dal datore di lavoro. Il datore di lavoro può evitare il pagamento dell’indennità solo dimostrando di aver invitato formalmente il lavoratore a usufruire delle ferie. Il diritto alle ferie si perde sono nel caso il cui il datore di lavoro riesce a provare di aver agito con diligenza. Le dimissioni non incidono quindi sul diritto alle ferie non godute. Al riguardo la Corte ha chiarito che le dimissioni non possono essere interpretate come accettazione delle conseguenze dell’estinzione del rapporto di lavoro quindi le dimissioni non implicano la rinuncia automatica all’indennità per le ferie non godute.

IL PREAVVISO

Qualsiasi lavoratore che decida di rassegnare le dimissioni, deve prestare attenzione al preavviso, ovvero quell’arco temporale che va dall’invio telematico alla risoluzione vera e propria del contratto. Se questo arco temporale non viene rispettato, il dipendente dovrà farsi carico di una indennità sostitutiva che, in determinati casi, può anche superare l’importo di uno stipendio. Questo può avvenire anche nel caso in cui il lavoratore, dopo aver rassegnato le dimissioni, smetta di andare al lavoro. La regola prevede, infatti, che il periodo di preavviso debba essere lavorato. Il periodo di preavviso è stato introdotto come tutela per il datore di lavoro affinché egli abbia il tempo necessario ad adeguarsi all’uscita del dipendente e trovare un suo sostituto. In questo arco temporale l’azienda deve poter contare sull’apporto del lavoratore uscente a meno che egli non si faccia carico dell’indennità riconosciuta a titolo risarcitorio. La stessa forma di tutela vale per il lavoratore: in caso di licenziamento, il datore di lavoro deve osservare un periodo di preavviso la cui durata è la stessa prevista per le dimissioni. Ci sono, ovviamente, dei casi in cui la tutela delle parti viene meno. Ad esempio, quando le parti sono colpevoli di un comportamento o omissione che rende impossibile continuare il rapporto di lavoro. Non è obbligatorio osservare il periodo di preavviso quando si rassegnano le dimissioni per giusta causa. Ci sono delle circostanze, infatti, che giustificano il lavoratore che non rispetta il preavviso di dimissioni. A partire dal 12 marzo 2016, come previsto dal Jobs Act, le dimissioni volontarie e la risoluzione consensuale del contratto di lavoro vanno effettuate in maniera telematica. I lavoratori con figli minori di tre anni sono esonerati dall’obbligo delle dimissioni online: essi dovranno comunicare il preavviso inviando una lettera di dimissioni al datore di lavoro, dimissioni che verranno convalidate dall’ispettorato territoriale del lavoro. Il nostro ordinamento consente al dipendente di presentare le dimissioni senza giustificarne il motivo: l’importante è, quindi, rispettare il periodo di preavviso diversamente dal licenziamento da quanto avviene per il datore di lavoro che è obbligato, invece, a rispettare le condizioni fissate dalla legge. Nella maggior parte dei Ccnl viene stabilito che il periodo di preavviso decorre dal 1° al 16° giorno di ogni mese. Se il dipendente dimissionario invia la comunicazione in un momento diverso, il calcolo della data termine del rapporto di lavoro inizia nel momento di decorrenza più prossimo. Il numero di giorni di preavviso da rispettare in caso di dimissioni dipende da diversi fattori ma in particolar modo influiscono la tipologia di contratto di lavoro, il livello di inquadramento, l’anzianità di servizio e la qualifica del lavoratore. Questi ultimi hanno un ruolo fondamentale nel caso di contratto a tempo indeterminato. Generalmente i tempi di preavviso variano dai 4 giorni in caso di contratto part-time con due anni di anzianità fino ad arrivare ai 15 giorni in caso di contratto full-time con almeno cinque anni di anzianità presso lo stesso datore di lavoro. Nella durata del preavviso si tiene conto di tutti i giorni di calendario, compresi quelli non lavorativi. Tra i giorni di preavviso non vengono, invece, conteggiati eventuali giorni di assenza del lavoratore per malattia, infortunio, ferie, maternità e congedi vari. Il periodo di preavviso riparte, quindi, dal giorno di rientro del lavoratore. Nel caso in cui il lavoratore non rispetti il periodo di preavviso previsto dalla legge, il datore di lavoro ha diritto a richiedere una indennità di mancato preavviso, ovvero un importo delle retribuzioni che sarebbero spettate per il periodo di preavviso non lavorato come stabilito dall’articolo 2118 del codice civile. Pensiamo, ad esempio, ad un lavoratore che dovrebbe dare preavviso di 30 giorni e non lo fa: al momento della liquidazione delle ultime competenze li verrà sottratto un importo pari allo stipendio che sarebbe stato percepito se quei 30 giorni fossero stati lavorati. Nel contratto a tempo determinato non è previsto il recesso anticipato e di conseguenza, non è previsto neanche il preavviso. Il rapporto di lavoro può concludersi prima del preavviso di dimissioni solo in caso di accordo di entrambe le parti o per recesso per giusta causa, ai sensi dell’art 2119 del codice civile. Il preavviso non è dovuto neppure per il recesso di un contratto a progetto, di uno stage o per la fine di una collaborazione coordinata continuativa. In caso di dimissioni per giusta causa non è dovuto nessun preavviso e quindi l’effetto del licenziamento è immediato. Non è previsto il preavviso anche per la lavoratrice che rassegna le dimissioni nel periodo di maternità, ovvero nel momento in cui viene a conoscenza della gravidanza fino al compimento dell’anno di vita del figlio. Non c’è obbligo di preavviso, né per l’azienda né per il lavoratore, nel caso di dimissioni rassegnate durante il periodo di prova. È facoltà del datore di lavoro rinunciare al preavviso di dimissioni consentendo al lavoratore di cambiare subito lavoro previa sottoscrizione di un accordo scritto da ambo le parti. Il periodo di preavviso viene trattato al pari degli altri giorni lavorativi, per cui il lavoratore ha diritto alla normale retribuzione. Durante il periodo di preavviso si continuano a maturare ferie, Tfr e tredicesima che saranno riconosciute alla fine del rapporto di lavoro.

NASPI

L’indennità di disoccupazione Naspi è una indennità riconosciuta a chi perde il lavoro a cause non imputabili a lui. Tuttavia per averne diritto bisogna aver lavorato per un certo numero di giorni. Fino a qualche anno fa per la valutazione del diritto alla Naspi, si guardava sia alle settimane contributive maturate nel quadriennio che ani giorni effettivi di lavoro nell’anno che procede la disoccupazione. Con la legge di Bilancio 2022 quest’ultimo requisito è stato sospeso. Oggi, l’unico requisito ai fini della Naspi è di natura contributiva: sono necessarie 13 settimane di contribuzione maturate nei 4 anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione. C’è una grande differenza tra settimane di contribuzione e settimane di lavoro. Affinché avvenga il riconoscimento di una settimana di contributi è necessario aver raggiunto il minimale contributivo: l’accredito scatta solo quando la retribuzione settimanale percepita è pari al 40% del trattamento minimo di pensione in vigore al 1° gennaio dell’anno di riferimento. Sono validi ai fini del perfezionamento del suddetto requisito non solo i contributi previdenziali, comprensivi di quota contro la disoccupazione versati durante il rapporto di lavoro subordinato ma anche: – i contributi figurativi accreditati per maternità obbligatoria, – contributi figurativi accreditati per i periodo di congedo parentale, – i periodi di lavoro all’estero in paesi comunitari o convenzionati dove è prevista la possibilità di totalizzazione, – i periodi di astensione dal lavoro per malattia dei figli fino agli otto anni. Se il lavoratore ha periodi in cui è stato occupato nel settore agricolo, questi possono essere cumulati per ottenere l’indennità Naspi. Considerate, quindi, le dovute eccezioni si può affermare che l’indennità Naspi spetta dopo 13 settimane di lavoro. Queste non devono essere necessariamente continuative poiché si tiene conto di tutti gli ultimi quattro anni. Lo stesso vale nell’ipotesi in cui ci siano le 13 settimane contributive ma si viene meno al requisito della perdita involontaria del lavoro perché, ad esempio, ci si è dimessi. In questo caso basterà anche una sola settimana successiva contributiva per avere diritto alla Naspi.  

PERMESSI 104

La legge n.104 del 1992 riconosce il diritto a 3 giorni di permesso per coloro che si occupano di un familiare con grave disabilità. Per ogni disabile da assistere vengono riconosciuti 3 giorni di permesso retribuiti ogni mese. A partire dal 13 agosto 2022, data dell’entrata in vigore del d.lgs. 105 del 2022, viene meno la figura del referente unico quindi possono usufruirne alternativamente più familiari a patto di non superare il limite di 3 giorni ogni mese. Lo stesso vale anche per il congedo straordinario di 2 anni. Tuttavia se un lavoratore ha bisogni di assistere non una ma due persone disabili avrà sempre diritto a 3 giorni di permesso al mese? A disciplinare la possibilità che al lavoratore spettino 6 giorni di permesso è l’articolo 6 del decreto 119 del 2011, con il quale al comma 3 dell’articolo 33 della legge 104 del 1992 riconosce la possibilità di raddoppiare i giorni di permesso portandoli a 6 laddove i familiari da assistere siano entrambi parenti o affini di primo grado, coniuge incluso. Tale possibilità è estesa anche ai parenti o affini di secondo grado nel caso in cui il coniuge o il genitore del disabile siano mancati, deceduti o invalidi a loro volta o over 65. La possibilità di cumulare i permessi 104 è riconosciuta per l’assistenza di persone disabili è valida solo quando gli assistiti sono genitori, figli, coniuge, suocero, suocera, nuora e genero. La normativa stabilisce che il cumulo è consentito solamente quando è dimostrata l’impossibilità per il lavoratore di assistere le persone contemporaneamente. Affinché si possano cumulare i permessi è necessario che l’assistenza sia esclusiva e continua per ciascuna delle persone in questione. Non ci sono limitazioni per la persona disabile che già usufruisce dei 3 giorni di permesso per se stesso: nel caso in cui egli abbia necessità di assistere allo stesso un familiare con disabilità potrà godere di altri 3 giorni di permesso se il medico legale attesta la capacità di costui di poter assistere a sua volta un disabile. Per poter richiedere il cumulo dei permessi 104 bisogna presentare una domanda distinta per ciascuna persona disabile da assistere allegando tutta la documentazione utile a dimostrare la necessità di assistenza disgiunta.