Archivio mensile Luglio 17, 2023

E’ POSSIBILE CAMBIARE IL SOSTITUTO D’IMPOSTA NEL MODELLO 730?

Cosa succede se nella dichiarazione dei redditi inseriamo un sostituto d’imposta errato? Se ci rendiamo conto di aver trasmesso un modello 730/2023 indicando un sostituto errato, non riceveremo mai il rimborso spettante perché non abbiamo più una busta paga con il suddetto.
L’Agenzia delle Entrate, quindi, manderà una comunicazione in cui si afferma che c’è stato un diniego da parte del sostituto di imposta indicato.
Il datore di lavoro è sempre obbligato a pagare il rimborso in busta casa. I
l suo diniego, quindi, non potrà essere arbitrario proprio perché nella maggior parte dei casi è obbligato ad anticipare il conguaglio nella busta paga dei dipendenti.
Il diniego può essere presentato se:
– il contribuente che lo ha indicato come sostituto d’imposta non ha mai avuto un rapporto di lavoro con lui e lo ha indicato per errore;
– il rapporto di lavoro con il contribuente sia cessato prima della data di avvio della presentazione del 730. In questi casi, il sostituto d’imposta può presentare entro 5 giorni dalla ricezione del 730, il rifiuto a prendere in carico le operazioni di conguaglio e al contribuente arriverà una mail automatica che lo informerà che il sostituto da lui indicato non provvederà ad effettuare ne rimborsi ne trattenute.
Anche se il sostituto d’imposta risulta errato, la dichiarazione dei redditi è regolarmente presentata per cui se dal 730 risulta un debito si devono versare le tasse tramite il modello F24. Se, invece, dalla dichiarazione emerge un credito per ricevere un rimborso bisogna mandare presentare un modello 730 integrativo di tipo 2 che consente, per l’appunto, di cambiare solo il sostituto d’imposta lasciando inalterata tutta la dichiarazione.
La presentazione di questo 730 integrativo può avvenire anche in autonomia sul sito dell’Agenzia delle Entrate entro il 10 Novembre 2023. Se non si ha un nuovo sostituto, basterà fleggare la casella relativa all’assenza di reddito: in questo caso sarà l’Agenzia delle Entrate a effettuare il rimborso direttamente sul codice IBAN.
Dopo il 10 Novembre si può ovviare all’errore presentando un modello redditi PF.

TASSE SULLA PRIMA CASA

Molti contribuenti si chiedono quali tasse debbano essere pagate sulla prima casa. Sul di essa, infatti, vi è una tassazione agevolata che parte dal momento del suo acquisto.
In caso di acquisto di prima casa, le imposte da versare sono diverse a seconda se si acquisti con o senza IVA.
Se si acquista da un venditore privato o da una impresa che vende in esenzione di IVA si avranno:
– imposta di registro proporzionale al 2% del valore di acquisto,
– imposta ipotecaria fissa di 50 euro,
– imposta catastale in misura fissa di 50 euro.
Se si acquista da una impresa con vendita soggetta a IVA si avranno:
– IVA al 4%,
– imposta di registro fissa a 200 euro,
– imposta ipotecaria fissa di 200 euro.
Ricordiamo che chi ha acquista la prima casa, ha la possibilità di portare in detrazione gli interessi passivi pagati sulle rate del mutuo, i costi sostenuti per il notaio e i costi per gli intermediari immobili.
Le agevolazioni sulla prima casa proseguono anche dopo il suo acquisto. Infatti, su di essa non è dovuta l’IMU tranne se l’immobile in questione non rientri in una categoria di lusso. Sono considerate categorie di lusso le categorie catastali A1(abitazione di tipo signorile ubicata in zone di pregio) A8(ville caratterizzate dalla presenza di giardini e parchi edificati in zone urbanistiche) e A9( castelli e palazzi storici).
Sulla prima casa è, invece, dovuta la TARI.
L’Irpef è l’imposta sul reddito delle persone fisiche calcolata sui redditi prodotti nell’anno di imposta del contribuente. Concorrono a determinare il reddito anche tutte le voci che possono rappresentare un valore economico quindi anche la rendita catastale degli immobili. Essa va indicata all’interno dei quadro “Terreni e fabbricati“ del modello 730 e del modello redditi delle persone fisiche. Per l’abitazione principale verrà inserito il codice 1 e viene riconosciuta la deduzione fiscale IRPEF dal reddito complessivo fino all’ammontare della rendita catastale della casa e delle su pertinenze. La rendita quindi non concorre a determinare il reddito imponibile. La deduzione, riconosciuta solo se l’immobile è di proprietà, viene calcolata tenendo in considerazione la quota del possesso e il periodo dell’anno in cui l’immobile è adibito ad abitazione principale.
Se il contribuente possiede due immobili, uno adibito a abitazione principale e l’altro usato da un proprio familiare, la deduzione che gli verrà riconosciuta sarà solo sull’immobile usato come abitazione principale.

TAGLIO DELLE TASSE IN BUSTA PAGA

Interessanti sono le novità riguardanti la tassazione del lavoro che influiranno sulla busta paga dei dipendenti. La Camera infatti ha dato il via libera alla legge delega che trainerà la riforma fiscale.
Dal prossimo anno dovrebbe essere messa in atto una detassazione della tredicesima, degli straordinari e dei premi dì produttività al momento tassati al 23% per redditi fino a 15mila euro.
Si ipotizza una tassazione del 15% ma le risorse a disposizione permetteranno di beneficiarne solo ai redditi più bassi. Per gli altri, probabilmente, ci sarà un aumento graduale al crescere del reddito fino ad arrivare all’aliquota ordinaria.
L’intervento piu atteso è l’annunciata rimodulazione delle aliquote Irpef e degli scaglioni di reddito.
Ricordiamo che, al momento, gli scaglioni Irpef prevedono il pagamento di queste percentuali Irpef :
– 23% per redditi fino a 15mila euro,
– il 25% per redditi compresi tra i 15mila e i 28mila euro,
– il 35% per redditi compresi tra 28mila e 50mila euro,
– il 43% per redditi eccedenti i 50mila euro.
Al momento non si hanno certezze su come avverrà il passaggio dai quattro ai tre scaglioni Irpef: l’ipotesi piu accreditata vede l‘unione del primo e del secondo scaglione. A beneficiare di questa rimodulazione delle aliquote Irpef sarebbero tutti i lavoratori, tranne quelli che hanno un reddito fino a 15mila euro.
L’Irpef è una imposta progressiva e lo sconto previsto con l’unione dei primi due scaglioni avrebbe effetto anche sugli altri in quanto per i primi 28mila euro pagheranno una percentuale di Irpef minore.
Il risparmio cresce, quindi, a crescere del reddito.

LA PACE FISCALE

La pace fiscale è da sempre un tema ricorrente della retorica di Matteo Salvini.
Con questo termine ci si riferisce a una politica che mira a risolvere o sanare controversie fiscali o a favorire una regolarizzazione delle situazioni di evasione o elusione fiscale.
Al contribuente viene offerta l’opportunità di regolarizzare la propria posizione fiscale attraverso il pagamento di una somma forfettaria o di un importo ridotto rispetto a quello dovuto, anche in maniera rateizzata.
Salvini, rispondendo alle domande dei cronisti, rilancia l’ipotesi di rivedere la posizione debitoria di milioni di italiani definendo come fondamentale, oltre alla riforma della giustizia, una grande e definitiva pace fiscale tra fisco e contribuenti. Salvini ha, inoltre, specificato che non andrebbe a vantaggio degli evasori totali ma che sarebbe destinata ad una “platea protetta” ovvero coloro che hanno dei debiti fino a 30mila euro.
Non sono mancati i commenti dall’opposizione, Giuseppe Conte in primis, che ha rimarcato come la pace fiscale andrebbe a discapito dei contribuenti onesti e che potrebbe incoraggiare, nello scenario collettivo, a creare il falso mito dell’illegittimità delle tasse.
Ricordiamo che in Italia l’ultimo esempio di pace fiscale fu adottato dall’esecutivo nel 2019.
Anche Carlo Calenda ha rimarcato l’inadeguatezza di questa prospettiva.

MANTENIMENTO SENZA MATRIMONIO

La convivenza comporta la creazione di un nucleo familiare a tutti gli effetti in modo analogo a quello matrimoniale. Tuttavia è il matrimonio che regolamenta l’unione: con esso, infatti, i coniugi si impegnano a rispettare precisi doveri e diritti stabiliti dal codice civile.
Ai fini dell’assegno di mantenimento, prima e divorzile dopo, vengono analizzati tutti gli aspetti della collaborazione familiare e i contributi dati da entrambi i coniugi.
Il diritto all’assegno di mantenimento ricade in modo automatico sui figli e sull’ex coniuge che non è autosufficiente dal punto di vista economico.
I precisi requisiti del diritto al mantenimento derivano proprio dal vincolo coniugale e diventano rilevanti dopo la separazione o il divorzio. Il diritto al mantenimento è il medesimo anche per gli uniti civilmente dato che esiste uno specifico vincolo di tipo legale tra le parti. Vincolo che manca, invece, nella convivenza dove tutto è lasciato alla libera scelta e agli obblighi morali.
Senza matrimonio non spetta il mantenimento salvo in presenza di un accordo a regolamentare la convivenza.
I conviventi non possono vantare l’uno sull’altro diritti di mantenimento a meno che questa previsione non sia resa possibile dal patto di convivenza che può determinare gli aspetti patrimoniali e introdurre l’obbligo di mantenimento nei confronti del convivente. Tutte le specifiche sono valide e possono essere fatte valere in tribunale con una causa civile in caso di inadempimento. Nel patto di convivenza, i conviventi possono stabilire anche la misura di calcolo del mantenimento, la sua erogazione e la durata.
L’unico requisito e’ che sia, ovviamente, una scrittura privata autenticata.
Diverso dall’assegno i mantenimento e’ l’obbligo alimentare dovuto alle persone in stato di bisogno.
In caso di necessità, tra i primi obbligati c’è donatario, obbligato in misura alla donazione ricevuta.
È tenuto a versare gli alimenti al convivente in stato di bisogno chi ha ricevuto donazioni, proprio in funzione si queste. Grazie alla legge Cirinna’, anche nelle coppie di fatto esiste l’obbligo alimentare, modello più restrittivo rispetto all’obbligo di mantenimento, analogamente alle coppie coniugate.
Tuttavia, in assenza del patto di convivenza è possibile ottenere la restituzione delle spese effettuate durante il periodo di convivenza?
La giurisprudenza considera l’esistenza di un implicito dovere di solidarietà tra i conviventi.
Il codice civile esclude il diritto alla restituzione di quanto dato per libera volontà adempiendo a un dovere morale. È prevista un’eccezione per le spese straordinarie, costi di entità importante per i quali è dovuta la restituzione del 50% se dimostrabili.

NUOVE SANATORIA PER LE PICCOLE IRREGOLARITA’

La tregua fiscale della Legge di Bilancio 2023 prevede anche la regolarizzazione degli errori prevista dal comma 166 legge 197/2022. Quando si parla di sanatoria si pensa subito alla rottamazione delle cartelle esattoriali ma la tregua fiscale voluta dal governo Meloni prevede anche altre misure di portata minore rispetto alla definizione agevolata delle cartelle o allo stralcio ma che sono ugualmente importanti poiché permettono di sanare delle irregolarità. Una di queste prevede di sanare le irregolarità formali commesse entro il 31 Ottobre 2022, previste dai commi 166 al 173 dell’articolo 1 della legge di Bilancio 2023, e che non richiede adempimenti dichiarativi. Sarà sufficiente pagare in due rati annuali l’importo previsto e si sanerà la propria posizione.
Questa sanatoria consente di sanare infrazioni e inadempimenti formali versando per ogni periodo di imposta 200euro. L’importo è pagabile in un’unica soluzione entro il 31 Ottobre 2023 versando 400euro o in due rate da 200euro: la prima con scadenza 31 ottobre 2023 e l’altra con scadenza 31 marzo 2024.
Con irregolarità formali intendiamo tutte quelle violazioni per cui sono previste sanzioni e che non pregiudicano l’attività di controllo svolta dall’amministrazione finanziaria. Sono irregolarità formali, ad esempio, la dichiarazione annuale non conforme, l’errata o incompleta indicazione dei dati del contribuente, l’omessa o irregolare presentazione delle liquidazioni periodiche dell’Iva, l’irregolare tenuta e conservazione delle scritture contabili se la violazione non ha prodotto effetti sulle imposte, le irregolarità per le comunicazioni di inizio, variazione e cessazione di attività ai fini dell’Iva.
Restano, tuttavia, escluse dalla sanatoria:
– gli atti di contestazione o di irrogazione delle sanzioni emessi nell’ambito della procedura di collaborazione volontaria;
– quelli relativi all’emersione di attività finanziarie e patrimoniali costituite o detenute all’estero,
– le violazioni di norme tributarie per le quali non è competente l’Agenzia delle Entrate;
– la comunicazione all’Enea per le detrazioni relative alle spese di riqualificazione energetica degli edifici;
– i tardivi o omessi pagamenti;
– le violazioni sostanziali.

RIMBORSO AL CONTRIBUENTE DECEDUTO

Cosa succede se un contribuente viene a mancare prima di ricevere il rimborso emerso dalla dichiarazione dei redditi? La pensione, infatti, dopo il decesso, viene bloccata dagli eredi che comunicano la dipartita all’Inps e le somme di rimborso spettante al genitore deceduto non posso essere richieste nella dichiarazione dell’erede. Queste vanno chieste nella dichiarazione dello stesso defunto.
L’importo non versato dall’Inps sarà indicato nella certificazione unica al punto 64 per l’Irpef, al punto 74 per le addizionali regionali e al punto 84 per quelle comunali si evincerà che il deceduto non ha potuto fruire del relativo rimborso spettante dalla dichiarazione dei redditi per l’anno di imposta dell’anno precedente.
L’erede, quindi, dovrà presentare nell’anno di imposta successivo la dichiarazione dei redditi per il defunto facendo valere anche questo credito nei confronti del Fisco.
Bisognerà quindi indicare il credito risultante del quadro F del modello 730 e nello specifico nel rigo F3 (eccedenze risultati dalla precedente dichiarazione). Se si presenta il modello Redditi PF bisognerà indicare il credito nella colonna 3 del rigo RN36 per ottenere il rimborso Irpef.
Queste tipologie di dichiarazioni sono più complesse ed è consigliato rivolgersi ad un Caf o un professionista abilitato.

SVALUTAZIONE DEGLI STIPENDI IN ITALIA

L’Ocse, con il report annuale Employment outlook 2023, ha messo in evidenza il calo dei salari reali registrato in Italia negli ultimi 12 mesi. Un dato che si è mostrato ben peggiore rispetto agli altri Paesi Europei, confermando come non basti il taglio del cuneo fiscale per contrastare la perdita del potere d’acquisto delle retribuzioni. Sarebbe opportuno agire alla fonte ovvero mettere le aziende nelle condizioni di poter aumentare gli stipendi.
Il taglio del cuneo fiscale, ad esempio, è solo una misura estemporanea che non fa altro che rimandare un problema che prima o poi dev’essere affrontato.
L’Ocse ha infatti analizzato le retribuzioni dal punto di vista del salario reale, ovvero il rapporto che c’è tra salario monetario e livello dei prezzi. A causa dell’elevata inflazione registrata nel 2022, al 31 dicembre scorso i salari reali risultavano diminuiti dei 7%, una discesa che non si è fermata nel primo trimestre di quest’anno quando è stato registrato un calo su base annua del 7,5%.
Considerando i lavoratori tutelati dalla contrattazione collettiva, i salari reali sono diminuiti del 6%. La ragione di questo calo è da imputare all’inflazione, ossia alla componente prezzi.
Con il salario monetario immutato, l’aumento del quoziente ha portato a una svalutazione del salario reale.
Oggi, quindi, lo stipendio ha un potere d’acquisto inferiore al 7,5% rispetto al passato. Se per i salari nominali è prevista una crescita del 3,7% nel 2023 e del 3,5% nel 2024, per quanto riguarda l’inflazione il tasso atteso è rispettivamente del 6,4%. Anche le aziende pagano le conseguenze dell’inflazione.
Dal report Ocse, risulta che i profitti crescono di più rispetto al costo del lavoro. Secondo Garnero, economista Ocse, l’Italia, se vuole puntare sulla contrattazione collettiva, deve trovare il modo di potenziarla. È necessario che anche in Italia possa esserci un meccanismo che rinnova gli stipendi con un intervallo di tempo più basso rispetto a quanto avviene oggi.
In Italia, infatti, ricordiamo che i contratti collettivi scadono ogni tre anni e che spesso i rinnovi vengono effettuati dopo.

TASSE SUL MANTENIMENTO

Nella nostra società le famiglie tradizionali sono sempre meno e aumentano quelle con genitori separati e divorziati. Conseguentemente, sono aumentati anche coloro che ricevono l’assegno di mantenimento dell’ex coniuge. L’assegno di mantenimento è regolamentato dalla legge italiana. Questa può avvenire con o senza la presenza di figli e può trattarsi di una erogazione garantita in fase di separazione. Un giudice, infatti, può decidere in fase di separazione o divorzio, che uno dei due soggetti debba garantire per un certo periodo di tempo un assegno di mantenimento. È utile ricordare che a livello fiscale c’è una grande differenza tra l’assegno di mantenimento percepito peri figli e quello dell’ex coniuge.
L’assegno di mantenimento percepito per i figli non concorre alla formazione del reddito imponibile e non è neanche tassato (anche se viene dichiarato nell’Isee) diversamente dall’assegno per il mantenimento dell’ex coniuge che costituisce reddito imponibile e quindi è assoggettato all’Irpef.
Tuttavia, se l’unico reddito che si percepisce è proprio l’assegno di mantenimento e l’importo totale annuo non supera gli 8.175 euro si rientra nella no tax area. Ma se l’importo dell’assegno di mantenimento annuo è più alto o si somma ad altri redditi che si percepiscono, esso sarà assoggettato alla tassazione ordinaria e rientrerà nello scaglione Irpef in base al reddito complessivo che il beneficiario percepisce.
L’assegno di mantenimento è infatti equiparato a reddito da lavoro per cui subisce la stessa tipologia di tassazione.
Se l’assegno di mantenimento all’ex coniuge viene erogato una tantum (in una sola soluzione) non costituisce reddito imponibile e non sarà soggetto a tassazione. Non andrà inserito neanche nella dichiarazione dei redditi. A differenza di chi riceve l’assegno, chi eroga l’assegno di mantenimento può portarsi in deduzione l’importo dovuto. Questo vale sempre nell’ipotesi in cui il versamento avvenga in modalità periodica: non è deducibile l’importo versato una tantum.

LA CESSIONE DEL CREDITO

Con il decreto legge 11 del 2023, decreto blocca cessioni, la cessione del credito è stata bloccata.
Se in Italia questa “pratica” è stata vista come un esperimento, altrove viene usata con costanza. La cessione del credito non è una pratica “nuova”: viene, infatti, utilizzata in modo ordinario negli Stati Uniti d’America per immettere liquidità nel sistema e per aiutare le famiglie con redditi bassi. Proprio per questo, il sistema può essere utilizzato, per analogia, anche in Italia nonostante le grandi differenzi tra il sistema fiscale italiano e il welfare italiano rispetto a quello statunitense. Negli U.S.A. al fine di favorire la transizione ecologica e di contrastare l’inflazione, nasce il programma Inflation Reduction Act (IRA) messo a punto dall’Internal Revenue Service (IRS), l’equivalente della nostra Agenzia delle Entrate. Il programma prevede un maxi piano di cessione del credito del valore di 370 miliardi di dollari il cui obbiettivo è quello di intervenire sulle emissioni inquinanti attraverso la produzione di energia pulita. L’obbiettivo è ridurre le emissioni di carbonio del 40% entro il 2030. È un programma molto simile al nostro Superbonus con la differenza è che IRA ha da subito determinato le risorse da mettere in campo. Questa “misura” è attualmente allo studio anche dell’Unione Europea proprio come strumento utile alla transizione ecologica. All’IRA viene affiancato un altro programma di cessione del credito, ovvero il programma EITC (Earned Income Tax Credit). In questo caso per i meno abbienti viene riconosciuto un credito fiscale rapportato al reddito prodotto e alla composizione del nucleo familiare. Si forma quindi una sorta di salvadanaio fiscale che i cittadini possono utilizzare per pagare le imposte. Poiché gli incapienti difficilmente matureranno dei debiti fiscali, le somme accantonate sono spesso utilizzate per altre finalità.
Le cessioni sono simili alle cessioni dei crediti da Superbonus applicate in Italia, ma la procedura è molto più semplice e le agenzie disposte ad acquistare sono più numerose. Per le imprese del settore edile le misure adottate negli Stati Uniti potrebbero essere la soluzione ideale perché denunciano uno stato di difficoltà causato dal decreto Blocca cessioni. Il superbonus ha contribuito in modo importante al rilancio dell’Italia in quanto rappresenta 1/3 del Pil nel 2022 e che le uscite dello Stato sono state compensate dalle maggiori entrate che hanno rappresentato una percentuale tra il 40% e il 70% del costo del provvedimento.