Archivio mensile Luglio 20, 2023

LA RIVALSA DEL DATORE DI LAVORO

La rivalsa è uno strumento che la legge prevede a favore dell’azienda o datore di lavoro che non può contare sulle prestazioni del dipendente temporaneamente inabile o assente per fatto del terzo.      Spesso le performance di un certo dipendente si rivelano essenziali per il funzionamento di un reparto o di un intero ufficio per cui, se costui non può recarsi a lavoro perché lesionato o infortunato da terzi, il datore di lavoro può tutelarsi grazie alla rivalsa. La rivalsa è uno strumento che garantisce la facoltà di conseguire un risarcimento del danno economico dovuto all’essenza del lavoratore infortunato. La rivalsa è quindi una azione legale che l’azienda o il datore di lavoro può intraprendere contro chi ha causato l’infortunio, la malattia o la lesione del proprio dipendente causandone l’assenza sul posto di lavoro. Un esempio di rivalsa è l’infortunio legato ad un incidente stradale mentre il dipendente è in viaggio per lavoro. Il risarcimento tramite rivalsa del datore di lavoro scatta in tutte quelle situazioni in cui vi sia un lavoratore infortunato o lesionato a causa di un terzo e per questo costretto all’assenza dal posto di lavoro. La tutela scatta a prescindere dallo specifico contesto in cui si è verificato l’incidente o l’infortunio. Il dipendente infortunato e temporaneamente inabile alla prestazione di cui al suo contratto di lavoro ha diritto alla conservazione del posto di lavoro, allo stipendio e ai contributi. Se l’infortunio avviene per ragioni di lavoro subentrerà l’INAIL mentre se l’infortunio è estraneo all’attività di lavoro, l’assenza sarà gestita dall’INPS. Il fondamento della rivalsa risiede nella legge: l’art 2043 del codice civile, relativo al risarcimento per fatto illecito, sancisce che qualunque persona arrechi ad altri un danno ingiusto è obbligata al risarcirlo. Questo vale anche per il caso dell’assenza del lavoro del dipendente infortunato per colpa del terzo poiché danneggia, in modo non trascurabile, anche il datore di lavoro. Al fine della quantificazione del danno patito dal datore di lavoro occorre fare riferimento all’ammontare della retribuzione e dei costi previdenziali versati dall’azienda nel lasso di tempo in cui il dipendente è assente dal luogo di lavoro. Il diritto al risarcimento per rivalsa è tutelato anche per l’ulteriore danno in ipotesi di comprovata necessità di sostituzione del dipendente con un’altra persona che va ovviamente pagata insieme al dipendente fermo per infortunio.  Una parte del costo lavoratore resta a carico dell’azienda in caso di lesione provocata dal fatto del terzo ma essa è comunque variabile in base al settore di impiego e al CCNL di settore applicabile. Parliamo di circa 2/3 della retribuzione lorda, comprese tredicesima, quattordicesima, premio di produzione quota parte TFR, quota INAIL a carico dell’azienda, contributi previdenziali Inps e altre casse di previdenza. Il costo lavoratore si riferisce anche alla quota di retribuzione maturata nel lasso di tempo di assenza come anche le ferie non godute ma maturate nel periodo di infortunio o malattia. Gli enti come INPS o INAIL liquidano esclusivamente una frazione della retribuzione mentre la differenza grava sul datore di lavoro. L’azione risarcitoria di rivalsa sul datore è da considerarsi valida e in grado di condurre al recupero delle somme: – se l’infortunio o malattia sono stati causati da fatto illecito di un terzo responsabile, – la rivalsa dell’azienda è valida sia per le ipotesi di infortunio sia per le ipotesi di malattia, – non rileva che gli effetti della malattia o dell’infortunio siano ancora presenti dato che il risarcimento in oggetto segue una prescrizione di 24 mesi (se il danno deriva da circolazione stradale).  La rivalsa è quindi esercitabile fino a due anni dall’evento. – l’azione di rivalsa del datore è valida sia nel caso il dipendente non abbia concorso all’incidente o infortunio, sia che sussista una sua corresponsabilità. È infine prevista una speciale tutela risarcitoria in caso di incidente che abbia coinvolto i dipendenti trasportati: il risarcimento scatta anche quando il conducente del mezzo su cui viaggiavano ha torto.

CARTELLA ESATTORIALE NULLA O ANNULABILE?

La cartella esattoriale o cartella di pagamento è un atto amministrativo il cui obbiettivo è rendere note le iscrizioni a ruolo delle somme da versare e ottenere la riscossione degli importi dovuti. È un titolo esecutivo per cui l’agente di riscossione, una volta notificata la cartella esattoriale, potrà avviare azioni esecutive sui beni del debitore al fine di riscuotere il dovuto. L’art 50 comma 1 DPR n.602/73 stabilisce che l’azione esecutiva nei confronti del debitore deve essere esercitata dopo 60 giorni dalla notifica. Il pignoramento non può essere proposto nel caso in cui il contribuente: – paghi per intero il dovuto, – presenti una istanza di rateizzazione, – aderisca ad un provvedimento di pace fiscale, – vi sia una sospensione amministrativa o giudiziale della cartella esattoriale, – il contribuente impugna il provvedimento. La cartella esattoriale non ha forza autonoma ma la sua efficacia è legata alla formazione di un ruolo. Esso si compone dell’elenco dei debitori e le somme dovute. Nello specifico devono essere inseriti: – somme dovute, – estremi identificativi del debito – data in cui il ruolo diventa definitivo, – il riferimento all’atto di accertamento precedente la motivazione del provvedimento, – la promessa sui tratti salienti della cartella esattoriale.  La cartella esattoriale per essere valida deve contenere una serie di elementi previsti dalla legge.                Di conseguenza, la nullità della cartella esattoriale è proprio legata alla mancanza di uno degli elementi. Essendo un atto amministrativo, essa deve essere, ai sensi dell’art 3 della legge 241 del 1990 e dell’art 7 della legge 212 del 2000 (Statuto del Contribuente), motivata. Dalla cartella esattoriale, inoltre, devono essere desumibili le ragioni di fatto o di diritto che hanno portato all’emissione della stessa. L’obbligo di motivazione è finalizzato a dare al contribuente il diritto di replica e di conseguenza il diritto di difesa. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.31270/18 ha sottolineato che la motivazione della cartella esattoriale deve essere congrua, sufficiente, intellegibile. Nella stessa ordinanza viene sottolineato che la carenza di motivazione si manifesta anche nel caso in cui sia presente il calcolo analitico degli interessi moratori applicati. Sull’obbligo di motivazione i giudici sono abbastanza severi: la corte di Cassazione con sentenza n. 28655/18 stabilisce che il processo tributario ha natura impugnatoria, e di conseguenza, l’amministrazione finanziaria non può in tale sede integrare le motivazioni poste alla base dell’atto impositivo. Tra i presupposti indefettibili della cartella esattoriale vi è la notifica dei termini temporali previsti dalla legge. In caso di tardiva notifica degli atti, gli stessi devono essere ritenuti perentori al fine di non lasciare il contribuente esposto all’azione esecutiva del Fisco. La notifica può avvenire anche tramite PEC ma è fondamentale che sia apposta la firma digitale sul documento e che la stessa si riferisca in modo univoco al soggetto notificante. La firma digitale per essere validamente apposta non deve essere scaduta o sottoposta a revoca o sospensione. L’apposizione a un documento informatico di una firma digitale basata su un certificato elettronico revocato, scaduto o sospeso equivale ad una mancata sottoscrizione e la stessa si considera non apposta. IL DOCUMENTO È QUINDI NULLO. In caso di contestazione, l’apposizione della firma digitale sul documento informatico, l’agente di riscossione deve dimostrare di aver provveduto a regolare la notifica della stessa. Tra i difetti di notifica che vi possono essere fatti valere ci sono anche: la notifica a persona diversa dal destinatario, – la notifica incompleta, – la notifica a contribuente defunto, – la notifica a persona non convivente con il destinatario, – la notifica presso la residenza di un familiare non convivente diversa da quella del destinatario, – la notifica a incapace o minore.

CARTELLE ESATTORIALI SOTTO I 1000 EURO CON STRALCIO AUTOMATICO

Le misure che hanno suscitato maggior interesse tra quelle introdotte dalla legge di Bilancio 2023 per la tregua fiscale sono sicuramente state l’adesione agevolata e lo stralcio automatico delle cartelle con importo fino ai 1000€. Tutte queste nuove modalità per pagare le pendenze con il Fisco hanno portato una grande attenzione sui debiti fiscali ma hanno anche contribuito a creare confusione tra i contribuenti che non sapevano se la loro situazione debitoria si poteva sanare in automatico o dovevano ricorrere alla domanda di adesione alla rottamazione. L’Agenzia delle Entrate è intervenuta chiarendo che la rottamazione avrebbe tenuto conto degli stralci avvenuti prima e dopo la presentazione della domanda di adesione, quindi il rischio di pagare somme che dovevano essere stralciate non c’è mai stato. Il fisco ha deciso di cancellare automaticamente una categoria ben precisa di debiti ovvero quelli iscritti a ruolo tra il 1 gennaio e 2000 e il 31 dicembre 2015, ossia vecchi di oltre sette anni, e con un importo complessivo tra capitale, sanzione ed interessi di 1000€. Per il fisco recuperare questa tipologia di cartelle costerebbe di più del debito stesso per cui la cancellazione è automatica e non servirà nessuna richiesta. Il dubbio lecito di molti contribuenti riguarda la tipologia di cartelle poiché non tutte sono ammesse nello stralcio. Anche i debiti nei confronti dei Comuni potrebbero non essere inclusi nello stralcio perché ci sono giunte comunali che hanno deliberato la non adesione allo stralcio. C’è anche il dubbio che riguarda l’iscrizione a ruolo: se ad esempio un debito riguarda un periodo anteriore al 2015 ma l’iscrizione è successiva, la cartella non rientra nello stralcio. I termini con i quali i Comuni possono deliberare l’adesione allo stralcio sono stati allungati: essi hanno tempo per deliberare fino al 29 Luglio. Per i Comuni che aderiscono in modo parziale o totale le delibere dovranno contenere anche le modalità, le tempistiche dello stralcio e l’eventuale modalità con cui poter saldare le cartelle.

BOLLETTE : QUALE TARIFFA SCEGLIERE

La liberalizzazione del mercato energetico ha dato la possibilità anche alle aziende private di poter proporre la loro offerta dando al cliente massima libertà di scelta.

Ritirando dal mercato le offerte fisse e avendo inserito le offerte indicizzate sono state le aziende stesse a creare confusione nel cliente che, adesso, sta ipotizzando un nuovo passaggio alla tariffa fissa.

Rispetto al 2022 i prezzi si sono stabilizzati tanto da poter pensare ad un nuovo passaggio alla tariffa fissa.

La differenza tra tariffa a prezzo fisso e tariffa a prezzo indicizzato sta nella componente variabile della bolletta. Nella tariffa a prezzo indicizzato il costo dell’energia varia mensilmente in base all’indice per l’energia elettrica (PUN) o del gas (PVS): per questo motivo le tariffe possono subire variazioni e sovrapprezzi. Le tariffe fisse non subiscono aumenti o diminuzioni per un periodo di tempo specifico che varia dai 12 ai 36 mesi. Sottoscrivere adesso una offerta a tariffa fissa bloccherebbe il costo della bolletta per almeno un anno ma precludersi anche eventuali diminuzioni su di essa mentre sottoscrivere una offerta a tariffa indicizzata significherebbe controllare costantemente il costo della componente della energia.

Al momento per la bolletta elettrica le offerte a prezzo fisso più convenienti del mercato sono in linea con quelle indicizzate (prezzo fisso 0.17€/kWh prezzo indicizzato 0.14€/kWh).

Per scegliere l’offerta conveniente sicuramente bisognerà tenere conto delle proprie esigenze.

La tariffa fissa sicuramente è più conveniente per chi è in difficoltà economiche soprattutto in prossimità dell’inverno e di conseguenza con il naturale aumento del gas. Inoltre la bolletta fissa consente di fare una stima delle spese annuali mentre la bolletta a tariffa indicizzata è sempre una incognita (anche se mediamente è sempre più bassa della bolletta a tariffa fissa).

LA SURROGA DEL MUTUO

Molte persone, per poter affrontare l’acquisto di una casa, si rivolgono alle banche per ottenere un mutuo. Affinché esso venga erogato, il richiedente deve fornire alla banca tutte le garanzie che l’istituto di credito possa ritenere adeguate.
La legge consente al richiedente anche di poter cambiare il proprio creditore, sostituendo una banca a un’altra anche se, quest’ultima, potrebbe non accettare la sostituzione.
Questo “cambio” prende il nome di surrogazione e con essa si intende proprio la sostituzione di un creditore con altro. In genere accade quando l’originario creditore riceve il pagamento da una persona che ne prende il posto nei confronti del debitore. La surrogazione può essere anche una scelta del debitore il quale, prendendo a mutuo una somma di denaro per pagare il creditore, surroga chi gli ha prestato i soldi nei diritti del creditore soddisfatto. Ma, la surrogazione può verificarsi anche per volontà di legge al ricorrere di certe condizioni.
La surroga del mutuo è l’operazione con cui una banca si sostituisce a un’altra all’interno di un contratto di mutuo: consiste, quindi, nella portabilità del mutuo. E’ un diritto del mutuatario per cui la banca che ha concesso il mutuo non può negare la propria surrogazione ma, al tempo stesso, la nuova banca a cui si rivolge non è costretta ad accettare di surrogarsi nella posizione del precedente istituto.
La surroga del mutuo è stata istituita per facilitare i debitori in difficoltà, i quali possono sostituire il vecchio creditore con uno che gli offre tassi d’interesse più bassi.
Quindi la banca erogante il mutuo non può opporsi alla surrogazione ma è fondamentale che il mutuatario trovi, prima di fare questa richiesta, un banca o un istituto di credito disposto a sostituirsi con la banca mutuante. La banca subentrante, quindi, si assume il credito residuo nei confronti del cliente.
La surrogazione è un’operazione completamente gratuita: nè il vecchio nè il nuovo istituto di credito possono chiedere denaro per compiere tale operazione.
Le spese notarili, i costi di perizia dell’immobile e le spese di istruttoria sono tutte a carico della banca subentrante e l’operazione deve concludersi entro 30 giorni dalla data di approvazione della richiesta.
La surroga del mutuo permette al mutuatario di avere un nuovo creditore il quale si farà carico di tutti i costi e applicherà condizioni più favorevoli sul mutuo residuo: L’IPOTECA, quindi, NON SI ESTINGUE MA PASSA ALLA NUOVA BANCA.
Il mutuo non si può surrogare se:
– l’importo restante da pagare è inferiore ai 50mila euro;
– se il mutuatario è un “cattivo pagatore”, ovvero un debitore con i pagamenti non in regola;
– l’immobile su cui è stata accesa l’ipoteca si è svalutato per danneggiamenti;
– le condizioni economiche del debitore si sono deteriorate, ad esempio perché ha perso il lavoro.

TASSE SULLA VENDITA DI UNA CASA

Non sempre quello che ricaviamo dalla vendita di una casa è soggetto a tassazione.
Gli obblighi, in questo caso, sono regolati dal tempo trascorso dall’acquisto dello stesso, dal fatto che si tratti di prima o seconda casa o ancora se il possesso dell’immobile è frutto di eredità.
E’ fondamentale, quindi, per capire quali e quante imposte bisogna versare, il tempo trascorso dall’acquisto e nello specifico se sono passati o meno cinque anni nel momento in cui si vende.
Nel caso di caso prima casa è obbligatorio pagare le imposte sulla plusvalenza derivante dalla vendita qualora non siano trascorsi cinque anni dall’acquisto dell’immobile.
Il venditore può scegliere due tipologie di tassazione:
– il regime ordinario, dove la plusvalenza generata dall’immobile sarà tassata in base alle normali aliquote Irpef, – l’imposta sostitutiva, dove il venditore pagherà una tassazione separata al 26% richiesta in sede di atto notarile.
Se si possiede l’immobile da oltre cinque anni, le tassi sul ricavo della vendita, anche se c’è plusvalenza, non sono dovute. Sono esenti dalle tasse le vendite di un immobile quando esso si acquisisce per successione ereditaria o donazione, poiché in caso di prima casa ereditata o donata la tassazione non è mai dovuta, e quando il proprietario ha avuto la residenza nell’immobile che vende per oltre la metà del tempo che è trascorso dal suo acquisto.
Nel caso di vendita della seconda casa, i meccanismi sono similari alla vendita della prima casa: se la vendita avviene dopo cinque anni dall’acquisto non sono dovute le tasse sulla plusvalenza che si ricava; nel caso in cui non siano passati cinque anni, il venditore pagherà le tasse sulla plusvalenza.
Per la prima casa ereditata o donata, ricordiamo che le imposte non sono mai dovute. Per la seconda casa ereditata o donata vige sempre il fattore tempo: se sono trascorsi meno di cinque anni dall’averla ricevuta in eredità, non sono dovute le tasse sulla vendita. Se sono trascorsi più di cinque anni dal momento in cui si eredità l’immobile, bisogna pagare le tasse sulla vendita che variano in base alla dichiarazione di successione.

DIMISSIONI PER TRASFERIMENTO

La Corte di Torino ha emesso una sentenza importantissima in ambito di dimissioni per trasferimento.
Questa sentenza contraddice il messaggio Inps 369/2018.
Per ottenere l’assegno di disoccupazione (NASPI) è necessario essere licenziati dal datore di lavoro.
Può trattarsi di licenziamento disciplinare (per giusta causa) o di licenziamento economico, legato a ragioni organizzative o produttive, come il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Si può trattare anche di licenziamento con accettazione dell’offerta di conciliazione presso l’ispettorato del lavoro. Chi si dimette volontariamente non ha diritto alla NASPI, a meno che non si tratti di dimissioni per giusta causa come, ad esempio, di una grave violazione del datore di lavoro.
Per aver diritto all’assegno è necessario aver versato contributi per almeno 13 settimane nei quattro anni precedenti l’inizio della disoccupazione.
Secondo il messaggio Inps n.369/2018, il dipendente che rifiuta il trasferimento ha diritto all’assegno di disoccupazione se:
-c’è risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, solo se il trasferimento avviene in una sede distante più di 50 km dalla propria residenza o raggiungibile coi mezzi pubblici in più di 80 minuti;
– in caso di dimissioni solo se il dipendente mostra che il trasferimento non è sorretto da ragioni tecniche, organizzative e produttive, indipendentemente dalla distanza tra la residenza del lavoratore e la nuova sede di lavoro.
Il tribunale di Torino, con la sentenza n. 429 del 27 Aprile 2023, ha ritenuto illegittimo l’onere della prova posto dall’Inps a carico del lavoratore. In particolare, ha stabilito che i dipendenti che vengono trasferiti in una sede distante non sono tenuti a dimostrare che il trasferimento era privo di valide ragioni al fine di avere diritto alla disoccupazione. Il tribunale di Torino, ha quindi annullato la prassi dell’Inps basata sul messaggio 369/2018. Secondi l’art 3 del Dlgs 22/2015, oltre al requisito contributivo di 13 settimane, il lavoratore che richiede la disoccupazione deve essere in stato di disoccupazione involontaria a seguito della perdita del proprio impiego. Dopo la sentenza del Tribunale di Torino, i dipendenti che si dimettono per trasferimento possono richiedere la disoccupazione e ne hanno diritto in via automatica senza dover dimostrare che il trasferimento era senza ragioni giustificate.

CARTELLE FISCALI DIMEZZATE

Nonostante il 30 giugno scorso si sia chiusa la possibilità per i contribuenti di aderire alla rottamazione quarter e, invece, sia ancora possibile presentare istanza per la definizione agevolata delle liti pendenti, c’è già, da parte di Matteo Salvini, ministro dei trasporti e delle infrastrutture, un nuovo provvedimento di pace fiscale.
Gli attuali provvedimenti prevedono la cancellazione delle cartelle esattoriali di importo inferiore a 1000euro affidate all’agenzia di riscossione tra il 1 gennaio 2000 e il 31 dicembre 2015.
Per le altre cartelle escluse da questo condono vi è la possibilità di mettersi in regola pagando gli importi dovuti senza interessi, sanzioni e aggio, ma solo l’importo in quota capitale.
Nella proposta di Salvini, invece, la pace fiscale dovrebbe andare a tagliare anche la quota capitale e dimezzarla. Salvini, nelle dichiarazioni rilasciate a Matera circoscrive il campo: la pace fiscale dovrebbe riguardare i contribuenti che hanno presentato le varie dichiarazioni al Fisco e che non hanno pagato gli importi.
Si riferisce, quindi, a quei contribuenti che nell’aver presentato la dichiarazione, dimostrano un comportamento collaborativo e che non vogliono evadere le tasse ma semplicemente non riescono a pagarle. Salvini sottolinea che sono contribuenti che rientrano nelle ipotesi di omesso versamento e sono i primi ad essere sottoposti ad accertamenti fiscali, i cosiddetti “evasori per necessità” e devono essere distinti da coloro che non hanno presentato le dichiarazioni. Le critiche alla proposta di cartelle esattoriali dimezzate non si sono fatte attendere: secondo le tali questo provvedimento favorisce coloro che evadono le tasse mortificando coloro che le pagano regolarmente istigandoli ad avere un comportamento fraudolento.
Proprio per il grande successo riscontrato dalla rottamazione quarter, con oltre 3milioni e 820mila contribuenti aderenti, molti temono che la nuova proposta possa portare a non pagare le rate al fine di ottenere maggiori agevolazioni future.

VIOLAZIONI RIPETUTE SUL POSTO DI LAVORO

Ripetute violazioni sul posto di lavoro possono portare al licenziamento?
Il contratto collettivo nazionale (il CCNL) individua, per ciascuna condotta illecita, la relativa sanzione.
Quando ciò non succede, il datore di lavoro applica, secondo un criterio di proporzionalità, la punizione adeguata al caso concreto. La valutazione può essere sindacata dal giudice in caso di contestazione da parte del lavoratore. Le sanzioni possono essere determinate dal regolamento aziendale, definito dallo stesso datore di lavoro.
Per essere valide, queste devono essere conosciute dai dipendenti.
Prima di applicare la sanzione, il datore di lavoro deve inviare una contestazione scritta al dipendente dandogli cinque giorni di tempo per difendersi e solo all’esito di tale termine può comunicargli la relativa sanzione.
Il dipendente, nello scrivere le proprie difese, può anche chiedere di essere sentito personalmente alla presenza di un sindacalista (non è ammesso l’avvocato).
La sanzione irrogata prima del decorso dei cinque giorni è illegittima.
Le sanzioni possono consistere nell’ammonizione scritta, in una multa (la trattenuta in busta paga per un massimo di 4 ore di retribuzione base), nella sospensione dal soldo e dal servizio (interruzione della erogazione retributiva per un massimo di 10 giorni), nel trasferimento e infine nel licenziamento.
Potrebbe anche succedere che il lavoratore compià più volte lo stesso illecito.
In caso di violazioni ripetute sul lavoro, il contratto collettivo può prevedere sanzioni più gravi, come la recidiva. Essa scatta quando il dipendente reitera, nell’arco di due anni, il comportamento che ha dato luogo ad un precedente provvedimento disciplinare.
Per poter applicare la disciplina della recidiva, il precedente comportamento deve essere stato già formalmente contestato al lavoratore, diversamente la sanzione più grave è nulla (sent.n.18294/2002). Se non si può più applicare la recidiva, perché già decorsi due anni dall’ultimo illecito, secondo la Corte, le precedenti violazioni possono venir prese in considerazione come circostanze confermative degli addebiti contestati, ai fini della valutazione della complessiva gravità proprio perché la ripetizione di condotte scorrette nel tempo rende la violazione degli obblighi del lavoratore ancora più grave a prescindere dall’applicazione della disciplina sulla recidiva. Ciò può portare a sanzioni più severe o addirittura al licenziamento.
Per la valutazione del licenziamento per violazioni ripetute, i giudici considerano la negligenza e l’improduttività nella prestazione lavorativa, gli sforzi dell’azienda per fornire formazione e assistenza adeguata e infine la persistenza delle condotte nonostante le precedenti sanzioni.

SCONTRINO MAGGIORATO PER AVER PAGATO CON BANCOMAT

La segnalazione è avvenuta da parte di una signora che, dopo aver consumato una normale colazione in un bar di San Donà di Piave, in provincia di Venezia, avendo pagato con bancomat, nello scontrino ricevuto ha trovato un costo extra per il servizio bancomat. Indignata, ha denunciato lo scontrino sovrapprezzato alla Polizia Locale e alle Autorità garante per la concorrenza e il mercato.
Non è possibile aumentare il conto a chi paga con il bancomat.
I regolamenti dei circuiti PagoBancomat, Visa, Mastercard vietano di porre l’addebito delle commissioni POS al cliente. Questo è ribadito da una norma dell’Unione Europea (decreto legislativo n.218 del 2017) che ha stabilito il divieto di sovrapprezzare il metodo di pagamento con carta.
La norma è anche definita dalle disposizioni in materia dell’art 62 del codice del consumo.
Le sanzioni per l’inottemperanza del divieto vanno da un minimo di 2mila euro ad un massimo di 5milioni e ovviamente sono proporzionate dalla gravità, dalla frequenza della condotta e dal numero di consumatori coinvolti. Il consumatore che si ritrova uno scontrino sovrapprezzato può effettuare una segnalazione all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM). Per farlo basta compilare un modulo online sul sito AGCM con le seguenti informazioni:
– la pratica illecita
– l’impresa o il professionista che la mettono in atto
– il prodotto o servizio oggetto della pratica scorretta
– altre informazioni utili.
Al termine delle indagini, il commerciante rischia una multa da un minimo di 2000 euro ad un massimo di 5 milioni di euro.