Archivio mensile Novembre 15, 2022

LE CONSEGUENZE PENALI DI CHI ATTRAVERSA LA STRADA COL CELLULARE

In realtà non esiste alcuna norma che disciplini l’attraversamento pedonale col cellulare. L’unica disposizione all’interno del Codice della strada  da cui si può evincere il divieto di attraversare la strada col cellulare stabilisce l’obbligo per il pedone, all’atto dell’attraversamento della carreggiata, di prestare «l’attenzione necessaria ad evitare situazioni di pericolo per sé o per altri».

Dunque sarà la polizia municipale a stabilire se l’occhio sul telefonino era tale da escludere qualsiasi prudenza nei confronti dei veicoli e di se stessi.

In questi casi la multa sanzionabile potrebbe andare da 25 a 100 euro. Multa che scatta anche se il pedone attraversa la strada fuori dalle strisce o in senso diagonale ai due marciapiedi.

Una seconda conseguenza dell’attraversamento della strada col cellulare in mano può derivare in caso di investimento. L’assicurazione potrebbe rifiutare l’indennizzo per il pedone distratto.

Se infatti un pedone viene investito da un’auto, la responsabilità del conducente si presume in automatico «salvo questi riesca a dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno». Ciò vuol dire che, in assenza di prove, anche se il pedone era distratto da un cellulare, quest’ultimo va sempre risarcito.

Ovviamente il fatto che il pedone sia distratto dallo smartphone non autorizza certo il conducente a investirlo se riesce a vederlo con congruo anticipo tanto da evitarlo. La responsabilità è esclusa solo quando la presenza del passante si pone come improvvisa e inevitabile.

QUALI SONO I LIMITI DA RISPETTARE SULL’ORARIO DI LAVORO?

Esiste un contratto collettivo nazionale per ogni settore di lavoro. Dunque è possibile che ci siano delle regole o delle sfumature diverse da un comparto all’altro o da una figura professionale ad un’altra anche sull’orario di lavoro.

La giurisprudenza stabilisce un orario normale di lavoro di 40 ore settimanali. Ma i contratti collettivi possono intervenire per stabilire una durata inferiore o  riferire l’orario normale alla durata media delle prestazioni lavorative in un periodo non superiore all’anno.

Le ore di lavoro settimanale possono essere ripartite su 5 o su 6 giorni sia dal contratto collettivo sia dal datore di lavoro previa comunicazione o trattativa.

Nessuna legge stabilisce un limite massimo per l’orario di lavoro giornaliero.

Si precisa che è il datore di lavoro a determinare numero di ore e orario di inizio e di termine della prestazione, così come la durata delle pause.

Il datore di lavoro può infatti decidere di far osservare ai dipendenti degli orari settimanali superiori e inferiori a quello normale, a condizione che la media delle ore di lavoro prestate corrisponda alle 40 ore settimanali. Nelle settimane in cui l’orario normale viene superato, le ore lavorate in più non vengono considerate ore di straordinario ma vengono recuperate in periodi successivi dell’anno grazie ad una riduzione oraria.

Non bisogna tuttavia dimenticare che l’orario di lavoro deve obbligatoriamente prevedere alcuni momenti di riposo per consentire al lavoratore di riprendere le energie spese.

Durata e modalità sono in genere stabilite dai contratti collettivi. In caso contrario, la legge prevede il diritto ad una pausa di durata non inferiore a 10 minuti consecutivi. Il datore di lavoro, stabilisce il momento in cui è possibile farla, tenendo conto delle esigenze tecniche e produttive dell’azienda.

È bene sapere che il lavoratore ha diritto a 11 ore di riposo consecutive ogni 24, calcolate dall’ora d’inizio della prestazione lavorativa. Il periodo di riposo minimo non può essere diminuito da accordi tra le parti.

Secondo la legge il diritto al riposo settimanale scatta ogni 7 giorni e per 24 ore consecutive.

Tuttavia, in determinate situazioni, il datore di lavoro non è tenuto a concedere il riposo settimanale ogni 7 giorni. La giurisprudenza definisce che il tempo di riposo consecutivo è calcolato come media in un periodo non superiore a 14 giorni. Se ne deduce che il principio di periodicità del riposo è rispettato anche se in un arco temporale di 14 giorni vengono concessi due riposi.

La mancata concessione del riposo settimanale è considerata illecita.

COSA FARE IN CASO DI CREDITO IMU?

Cosa succede al contribuente che, a seguito di modifiche effettuate dal Comune, ha versato dell’Imu in eccesso, e che si trovati con un credito pari all’imposta versata, sia nei confronti del Comune che dello Stato?

Il soggetto potrà presentare l’istanza di rimborso al Comune interessato, ed ottenere in questo modo la restituzione dei maggiori importi pagati.

Se invece, in sede di saldo risulta un credito Imu per la quota erariale versata erroneamente a giugno, e un debito Imu per la quota comunale, sarà possibile compensare i due importi. Se la differenza è a credito basterà chiedere il rimborso al Comune interessato, se invece la differenza è a debito il contribuente dovrà inoltrare al Comune un’istanza dove si evidenzierà che il saldo è stato calcolato tenendo conto della quota erroneamente versata allo Stato.

Possono però verificarsi anche dei casi in cui il contribuente abbia erroneamente indicato il codice tributo nel modello F24 o nel bollettino postale. In questi casi sarà necessario chiedere la correzione del codice tributo al Comune e non all’Agenzia delle Entrate dal momento che l’Imu è un tributo comunale.

Se l’errata indicazione del codice ha creato un’errata distribuzione dell’imposta tra Stato e Comune, spetterà a costoro effettuare le relative regolamentazioni.

Qualora invece sia l’intermediario ovvero la banca o la Posta a riportare in maniera scorretta il codice catastale del comune ove è situato l’immobile, il contribuente potrà chiedere l’annullamento del modello F24.

In questo modo il modello di pagamento potrà essere rinviato con i dati corretti e sarà possibile trasmettere ai Comuni interessati i dati dell’annullamento e dell’operazione corretta, nonché effettuare le relative regolazioni finanziarie.

PISTE CICLABILI: LE REGOLE CHE I PEDONI SONO TENUTI AD OSSERVARE

Con l’aumento della mobilità sostenibile sono aumentate le piste ciclabili all’interno del nostro Paese, ma qual è il comportamento corretto da tenere nei confronti dei ciclisti che le impiegano?

Ciclisti e pedoni possono convivere tranquillamente, a patto che entrambi rispettino le regole imposte dal codice della strada.

Innanzitutto è bene sapere che, quando si cammina a piedi su una pista ciclabile destinata ad esclusivo delle biciclette, in realtà ci troviamo nel luogo sbagliato.

Queste strade sono, infatti, riservate alle due ruote che sono addirittura obbligate a usarle, se presenti. Un pedone su una pista ciclabile ad uso esclusivo delle biciclette è dunque un intruso, a meno che non sussistano motivi di sicurezza.

Se manca il marciapiede o la banchina, oppure se il marciapiede è ostruito da un ostacolo, è permesso percorrere a piedi la corsia dei ciclisti, in assenza di percorsi alternativi per i pedoni.

Il consiglio, in questi casi, è di camminare in senso contrario a quello di marcia, in modo tale da guardare i ciclisti in faccia così da poter spostarti al loro passaggio senza il rischio di essere travolti alle spalle.

Se  invece sei un ciclista che si trova davanti un pedone che ha invaso la tua pista ciclabile per cause di forza maggiore, il consiglio è quello di farsi sentire utilizzando il campanello e non aspettare di essere troppo a ridosso. In questo modo si evitano movimenti bruschi da parte del pedone che potrebbero farti cadere.

È opportuno inoltre, sia se si è a piedi che in bici, prestare attenzione agli attraversamenti pedonali segnalati con le strisce. È bene guardare da ambedue le direzioni prima di attraversare e andare dall’altra parte. Gli attraversamenti selvaggi vanno evitati soprattutto in punti dove non è consentito e dove un ciclista non si aspetterebbe di vederti spuntare.

Di regola le piste ciclabili dovrebbero comprendere un percorso riservato per i pedoni, di solito accanto a quello delle biciclette. Capita però spesso che percorsi realizzati in passato non abbiano questo importante requisito di sicurezza.

Queste piste vengono contrassegnate da un cartello tondo a sfondo blu sul quale sono raffigurate una bici e un omino separati da una linea bianca. Se sia i pedoni che i ciclisti rispettano le regole, non dovrebbero esserci inconvenienti.

Infine è bene sapere che esistono piste ciclabili dove la precedenza e il transito non è a uso esclusivo delle biciclette: si tratta di percorsi promiscui ovvero piste ciclabili sulle quali puoi andare sia in bici che a piedi, senza delimitazioni o separazioni effettive tra i due tratti.

CHI E’ TENUTO A RISARCIRE  I DANNI IN CASO SI UN ALBERO CHE CADE SU UN VEICOLO?

Secondo l’art. 2051 del Codice civile per i danni arrecati alle cose che ciascuno ha in custodia bisogna considerare il principio della responsabilità.

Dunque, nel momento in cui la caduta di un albero provochi dei danni ad un’automobile, bisogna considerare che anche un albero è una «cosa», proprio come il manto stradale, i muri ed i cornicioni, e in quanto tale deve essere custodito dal suo proprietario. Quest’ultimo deve conservarlo costantemente in buono stato vegetativo, di manutenzione, di consolidamento del terreno in cui si trova e di potatura regolare di rami e foglie.

Dunque qualora si verifichi un danno ad un veicolo e questo sia causato dalla caduta di un albero , se quest’ultimo è situato su una pubblica via, risponde dei danni arrecati a persone e cose l’Ente proprietario o gestore del tratto stradale interessato. Ma potrà anche trattarsi di un condominio, se l’albero si trova in una parte comune dell’edificio, come il viale di accesso, il parcheggio auto o il cortile interno.

Qualora ci troviamo di fronte a casi di albero di proprietà privata che si affaccia su strada pubblica e cadendo colpisce un’auto in sosta o in movimento, la giurisprudenza parla di concorso di responsabilità solidale tra il proprietario del suolo in cui è piantato l’albero e l’Ente pubblico competente sul tratto di strada interessato, perché non ha adeguatamente vigilato sulle condizioni di sicurezza delle piante prospicenti.

Tuttavia la responsabilità del proprietario dell’albero  non è dovuta se si dimostra la sussistenza di un evento imprevedibile ed eccezionale che ha provocato autonomamente la caduta dell’albero su persone o cose. Pensiamo ad una tromba d’aria o ad un temporale.

Ma attenzione: al proprietario non basterà far riferimento alle condizioni metereologiche per cavarsela, ma dovrà addurre qualcosa di più specifico per spiegare come mai quel fenomeno meteorologico fosse imprevedibile, ed anche documentare che l’albero prima di cadere si trovava in buone condizioni di manutenzione.

IL POTERE DEL DATORE DI LAVORO SUI CONTROLLI IN SMART WORKING

Il lavoro agile è stata la risposta per garantire una continuità a molti lavoratori dipendenti durante il periodo Covid e continua ad essere una forma di lavoro molto diffusa per chi  ha potuto continuare a lavorare senza doversi recare all’interno del luogo di lavoro anche dopo la fine della pandemia.  

Lo smart working infatti crea molti vantaggi non solo per il lavoratore, che può gestire al meglio il proprio lavoro autonomamente, ma anche  alle aziende, che possono risparmiare notevolmente sulle spese per il mantenimento di un luogo fisico in cui svolgere l’attività.

Ma bisogna considerare che esistono delle condizioni da rispettare per il lavoratore subordinato che opera in smart working.  

La normativa italiana prevede che per questa forma di lavoro non esistano vincoli di orario, o di luogo, tuttavia la gestione del lavoro è organizzata per fasi, cicli e obiettivi, tramite un accordo tra lavoratore e datore di lavoro. Come ribadisce il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, è importante garantire ai lavoratori da remoto la stessa tutela applicata in presenza.

Il datore di lavoro mantiene poteri di controllo sul lavoro svolto dai dipendenti, tuttavia solamente in base alla verifica dei risultati e degli obiettivi raggiunti, tramite un accordo specifico con il lavoratore su quali sono gli obiettivi previsti.

La giurisprudenza disciplina che non è possibile utilizzare videocamere per sorvegliare il lavoratore che lavora da casa. Il controllo del lavoro a distanza non passa nemmeno attraverso l’utilizzo di tecnologie che permettono di geolocalizzare il  dipendente per sapere se sia seduto davanti al PC oppure sia fuori al parco.

L’azienda può inoltre chiedere al lavoratore di utilizzare i propri strumenti, come computer, tablet o smartphone, oppure fornire questa strumentazione a tutti i lavoratori in modalità da remoto. È importante che i poteri di controllo non vadano a ledere la privacy del lavoratore in smart working,  dato che, lavorando per lo più da casa, la vita lavorativa e quella privata si mescolano inevitabilmente.

Il datore di lavoro è tenuto a rispettare la privacy del lavoratore, e non può installare ad esempio sul computer appositi software per il controllo della geolocalizzazione del dipendente, o programmi similari che possono ledere la privacy.

Ancora il titolare non può accedere agli indirizzi email privati dei lavoratori, anche se può disporre di indirizzi email appositamente utilizzati per lo svolgimento del lavoro, su cui non ci è un principio di segretezza.

Anche il lavoratore a sua volta, non può utilizzare i mezzi di comunicazione aziendali per scopi personali, e il datore di lavoro può controllare questi mezzi. Se vengono effettuati dei controlli, il datore di lavoro deve informare in un momento precedente tutti i lavoratori in smart working di quanto avverrà.

L’azienda quindi può decidere anche di adottare sistemi di sicurezza aggiuntivi per proteggere il sistema di rete dei lavoratori, da possibili attacchi esterni, informando il lavoratore su quali sono i dati sensibili, quali sono le modalità per trattare queste informazioni e trasmetterle, quali sono le modalità di controllo prese in considerazione.

SCADENZA SECONDA RATA IMU A DICEMBRE: CHI E’ ESONERATO?

I contribuenti dovranno versare la seconda rata dell’Imu entro il prossimo 16 dicembre.

Il governo all’interno del decreto Aiuti-quater ha previsto degli incentivi anche per consentire l’esonero dal pagamento dell’Imu per alcuni settori.

Il particolare, secondo quanto disciplinato, non saranno tenuti al pagamento dell’imposta municipale i soggetti che appartengono al settore dello spettacolo. Per questi contribuenti, dice il decreto “per il 2022, la seconda rata dell’Imu di cui all’articolo 1, commi da 738 a 783, della legge 27 dicembre 2019, n. 160, non è dovuta per gli immobili di cui comma 1 lettere d), nel rispetto delle condizioni e dei limiti del Regolamento (UE) n. 1407/2013 della Commissione del 18 dicembre 2013 relativo all’applicazione degli articoli 107 e 108 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea agli aiuti «de minimis».”

Si fa, dunque, esplicito riferimento a tutti quegli immobili rientranti nella categoria catastale D/3 che risultano adibiti a spettacoli cinematografici, teatri e sale per concerti e spettacoli. Un beneficio che, riguarda esclusivamente i casi in cui i proprietari dell’immobile risultino essere allo stesso tempo anche i gestori delle attività esercitate all’interno della struttura.

Ricordiamo che l’imposta continua a non essere dovuta sull’abitazione principale, ovvero sull’immobile nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente, a meno che si tratti di un’unità abitativa inclusa nelle categorie catastali di lusso (A/1, A/8, A/9). Sono inoltre esentati dall’Imu anche i fabbricati di civile abitazione destinati ad alloggi sociali) adibiti ad abitazione principale, la casa familiare assegnata al genitore affidatario dei figli e un immobile posseduto, ma non concesso in locazione, da soggetto appartenente alle forze armate o alle forze dell’ordine, pure nel caso in cui non risulti dimora abituale o non coincida con la residenza anagrafica.

LE NOVITA’ CONTRO IL CARO BOLLETTE PREVISTE DAL D.L. AIUTI QUATER 

Nel Dl Aiuti Quater, approvato il 10 novembre, c’è un’importante novità. Viene infatti esteso a fine dicembre il contributo straordinario, sotto forma di credito d’imposta, a favore delle imprese per l’acquisto di elettricità e gas.

Parliamo dello strumento destinato a imprese che registrano elevati incrementi della spesa energetica, già previsto fino a novembre dai precedenti decreti adottati dal governo e che ora viene ulteriormente prorogato.

Ulteriore novità è dovuta dal fatto che la rateizzazione delle bollette per le imprese può essere chiesta per il periodo dal primo ottobre 2022 al 31 marzo 2023, ma solo per la parte eccedente l’importo medio contabilizzato tra il primo gennaio e il 31 dicembre 2021.

Affinché le imprese possano accedere alla misura, esse dovranno formulare un’istanza le cui modalità saranno definite da un decreto del Mise da adottare entro 30 giorni dall’ok al decreto.

Si parla tuttavia di rateizzazioni a tasso calmierato dove l’entità del tasso di interesse eventualmente applicato non dovrebbe superare il saggio di interesse pari al rendimento dei BTp di pari durata, le date di scadenza di ciascuna rata e la ripartizione delle medesime rate, per un massimo di 48 rate mensili.

Ma non è finita qui. Altra novità sarebbe quella dell’aumento dei fringe benefit esentasse che le aziende possono concedere ai dipendenti nel periodo di imposta 2022, sotto forma di beni, servizi o somme per pagare le utenze domestiche di acqua, luce e gas.  Si parla di un bonus che da 600 euro sale a 3.000. in questo modo si amplia così la possibilità, per i datori di lavoro, di sostenere i dipendenti contro il caro bollette.

Si è inoltre rafforzato il bonus sociale elettrico estendendo al quarto trimestre dell’anno 2022 in modo da allargare la misura per ottenere le agevolazioni relative alle tariffe per la fornitura di energia elettrica riconosciute ai clienti domestici economicamente svantaggiati .

Si ricorda che, per ottenere l’agevolazione è necessario presentare la Dichiarazione sostitutiva unica (Dsu) ogni anno e ottenere un’attestazione di Isee che non superi il limite di reddito previsto per i bonus.Quest’ultimo verrà riconosciuto automaticamente in bolletta agli utenti aventi diritto.

SE NON E’ RISPETTATA LA DELEGA DI FIRMA L’AVVISO DI ACCERTAMENTO E’ DA CONSIDERARSI NULLO

Un atto impositivo può dirsi nullo se il contenuto della delega di firma emessa dal capo dell’ufficio, in via generale, non è stato rispettato dal sottoscrittore, nel caso concreto.

La Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 32386 del 3 novembre 2022 ha stabilito che se il direttore dell’Ufficio ha rilasciato la delega, delimitando per valore lo scaglione in relazione al quale è attribuito al delegato il potere di firmare l’avviso di accertamento, e tale limite non è stato rispettato, l’atto impositivo è nullo.

Il caso è quello di una società ha impugnato una serie di avvisi di accertamento per assenza di valida delega.

Il giudice d’appello ha accolto il ricorso della società ritenendo applicabile alla fattispecie il disposto dell’art. 42 del DPR n. 600 del 1973 e concludendo nel senso del mancato assolvimento da parte dell’Agenzia dell’onere a suo carico di dimostrare l’effettiva sussistenza in capo al delegato del potere di sottoscrizione degli atti impositivi, con conseguente nullità degli stessi.

Secondo la giurisprudenza infatti, in tema di accertamento tributario, ai sensi dell’art. 42, commi 1 e 3, del DPR n. 600 del 1973, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva e, cioè, da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale.

Dunque se la sottoscrizione non è quella del titolare dell’ufficio, è compito dell’Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore e la presenza della delega del titolare dell’ufficio, consistente nel dare prova dell’esistenza della delega e del suo corretto esercizio, quale effetto diretto dell’espressa previsione della tassativa sanzione legale di nullità dell’avviso di accertamento.

AUTO PARCHEGGIATA IN DOPPIA FILA: COSA SI RISCHIA?

Il vizio del parcheggio in doppia fila è un problema consueto nel nostro Paese. La scelta di l’auto in doppia fila ostacola spesso il traffico veicolare, rendendo problematica la circolazione in strade strette e a doppio senso, e oppure bloccandola totalmente quando transitano tram, bus e mezzi pesanti.

Le soste non autorizzate causano importanti rallentamenti su tutte le linee, specie nelle grandi città, causando inevitabilmente disagi ai passeggeri ma anche un danno economico non trascurabile all’azienda stessa.

Un dei danni delle soste in doppia fila è quello causato al servizio pubblico: se autobus e tram ritardano o fanno meno corse per via degli ingorghi, le persone che fanno uso dei mezzi compreranno meno biglietti e questo a lungo andare diminuirà le entrare dell’azienda.

Il servizio di trasporti Atm ha rilevato che, nel 2018, sono state ben 2753 le interruzioni di pubblico servizio di bus e tram, di cui solamente 679 sono imputabili a incidenti fra terzi. L’incredibile dato è che 1.873 interruzioni, ovvero quasi 5 al dì, sono la conseguenza delle soste in doppia fila.

L’ATM ha calcolato che l’interruzione, la  tipologia dell’interruzione, e le eventuali deviazioni dai percorsi previsti, causano danni variabili. In generale, il danno è compreso da 90€ a 1500€.

Il Codice della Strada  vieta esplicitamente la sosta in doppia fila: l’articolo 158, comma 2, lett. c infatti, prevede una sanzione amministrativa da 24 a 97 euro per i ciclomotori e i motoveicoli a due ruote e da 41 a 168 euro per i restanti veicoli.

Ci sono tuttavia alcuni casi in cui il parcheggio in doppia fila è consentito.

L’articolo 54 del Codice Penale stabilisce che:“ non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”

Dunque, affinché un parcheggio in doppia fila non sia sanzionabile, è necessario che:

  • deve esserci urgenza;
  • la situazione di pericolo deve essere non altrimenti evitabile: in pratica, non deve essere possibile trovare soluzioni alternative se non quella di violare il codice della strada;
  • deve esserci una condizione di gravità: di entità tale da porre l’automobilista o altra persona in una situazione di pericolo per la vita o per l’integrità fisica.