Archivio mensile Ottobre 18, 2022

COSA SI INTENDE PER LICENZIAMENTO RITORSIVO?

Il licenziamento ritorsivo consiste nel recesso deciso dall’azienda nell’ambito di «un’ingiusta e arbitraria reazione del datore essenzialmente, quindi, di natura vendicativa a un comportamento legittimo del lavoratore e inerente a diritti a lui derivanti dal rapporto di lavoro o a questo comunque connessi».

Si pensi, ad esempio, al dipendente che, per motivi di salute, si assenta spesso dal lavoro pur restando entro i limiti del periodo di comporto. O a chi osserva scrupolosamente il suo orario di lavoro, senza mai arrivare in ritardo né uscire prima. O, ancora, a chi chiede di fruire di tutte le sue ferie e anche dei permessi maturati fino ad azzerarli. E a chi si limita a fare esclusivamente il lavoro previsto dalle sue mansioni così come contemplato dal contratto aziendale o collettivo, apparendo poco disponibile pur nel rispetto dei suoi doveri.

Il licenziamento ritorsivo è sempre da considerare nullo, a condizione che il motivo di natura vendicativa, e come tale illecito, sia stato l’unico determinante del recesso e «sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni».

Il licenziamento ritorsivo non va confuso con quello discriminatorio. Nel primo caso, come abbiamo visto, ci deve essere una reazione vendicativa e, come tale, ingiusta e arbitraria da parte del datore di lavoro contro un modo di fare comunque legittimo del dipendente.

Il licenziamento discriminatorio, invece, viene definito dalla Cassazione come quello che discende da una violazione di specifiche norme di diritto interno .

Esiste un tipo di licenziamento che qualche volta viene ritenuto legittimo per le cause che portano al recesso ed è il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Consiste, in parole semplici, nel recesso deciso per problemi economici dell’azienda cioè per la necessità di ridurre il numero dei dipendenti a causa di una sopraggiunta situazione di crisi. L’onere di provare tale situazione è a carico del datore di lavoro.

La giurisprudenza definisce che  esiste un giustificato motivo oggettivo quando ci sono alla base del licenziamento ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Come si inserisce il licenziamento ritorsivo in questo contesto?

L’esempio è quello fatto in precedenza: un lavoratore segue scrupolosamente le regole ma non «regala» un minuto in più all’azienda, oppure si assenta molto frequentemente dal lavoro per certificati motivi di salute pur non superando il comporto. Il datore di lavoro vuole lasciarlo a casa e tenta la strada del licenziamento per giustificato motivo oggettivo alludendo al fatto di dover tagliare il personale per questioni economiche e di non avere più bisogno della sua posizione.

Affinché il licenziamento sia valido, il datore deve dimostrare non solo che c’è una crisi di mercato in atto, che deve alleggerire l’organico pena la chiusura dell’attività, ecc.: deve anche dimostrare di non potersi tenere quel lavoratore in un altro reparto che rimane aperto e di avere, comunque, valutato la possibilità del repêchage. Altrimenti, si potrebbe dedurre che il licenziamento è ritorsivo, cioè che il datore si voglia disfare proprio di quel lavoratore senza un motivo ben preciso.

Secondo la Cassazione, in presenza di un licenziamento ritorsivo, dovrà essere il lavoratore a provare l’intento ritorsivo del licenziamento, dimostrando gli elementi che portano a pensare ad una rappresaglia del datore nei suoi confronti. Allo stesso modo, il datore di lavoro dovrà provare le ragioni alla base del giustificato motivo oggettivo.

COSA RISCHIA CHI MANDA MESSAGGI SGRADITI SU WHATSAPP?

Per molto tempo si è pensato che il reato di molestie non si potrebbe configurare tutte le volte in cui la vittima abbia la capacità di sottrarsi alla condotta molesta. Non vi sarebbe, ad esempio, alcuna molestia nell’inviare continue email o messaggi su un social, visto che il destinatario può decidere liberamente se collegarsi o meno al proprio account e leggere il contenuto delle comunicazioni. Laddove invece questi non possa evitare la molestia, come nel caso dello squillo del telefono di casa o del citofono di casa, allora il reato sarebbe conclamato.

Le nuove applicazioni con le quali si inviano messaggi sappiamo bene che consentono, volendo, di bloccare un contatto, impedendogli così sia di telefonare che di inviare messaggi molesti. Ma la pronuncia in commento ha modificato la tradizionale interpretazione del reato di molestie.

Secondo infatti la Cassazione, ai fini dell’integrazione di tale illecito penale, ciò che conta di più è il carattere invasivo del mezzo impiegato per raggiungere il destinatario e non la possibilità per quest’ultimo di interrompere o prevenire l’azione perturbatrice, escludendo o bloccando il contatto o l’utenza non gradita. Va poi aggiunta la percezione immediata e diretta del contenuto del messaggio o di parte di esso, attraverso l’anteprima di testo che compare sulla schermata di blocco del cellulare, realizzandosi in tal modo in concreto una diretta e immediata intrusione del mittente nella sfera riservata del ricevente. 

Del resto, il fatto stesso di costringere una persona a correre ai ripari contro il molestatore, bloccandone la numerazione costituisce in sé una molestia che deve essere punita.

Cosa rischia, dunque, chi invia messaggi sgraditi su WhatsApp?

Il Codice penale è abbastanza severo: l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a 516 euro. Tuttavia, se il comportamento non viene ripetuto nel tempo, l’imputato può ottenere il beneficio della “non punizione” invocando la cosiddetta particolare tenuità del fatto.

La Cassazione ha ritenuto che il carattere invasivo della messaggistica telematica non può essere escluso per il fatto che il destinatario di messaggi non desiderati, inviati da un determinato utente, possa evitarne agevolmente la ricezione, senza compromettere in alcun modo la propria libertà di comunicazione. Quindi, non è solo la chat di WhatsApp a far scattare il reato, ma anche l’sms o l’invio di messaggi attraverso il servizio di messaggistica di un social network.

Allo stesso modo, la Cassazione ha detto che è reato anche l’invio di messaggi per interposta persona: è ad esempio il caso di chi, essendo stato bloccato da un utente, utilizzi la numerazione di un amico in comune affinché gli faccia arrivare il proprio messaggio.

QUANDO E’ POSSIBILE E QUALI SONO LE SANZIONI PER INVERSIONE DI MARCIA

Di motivi per trovarsi nella situazione di dover fare un’inversione di marcia ce ne sono diversi. Il punto è: dov’è consentita la manovra, per evitare di prendersi una multa?
Il Codice della strada stabilisce delle regole per poter fare quello che la normativa chiama un «cambio di direzione». In linea di massima, l’automobilista deve obbligatoriamente:
• verificare di poter effettuare la manovra senza creare pericolo o intralcio agli altri conducenti, tenendo conto della loro posizione, della distanza e della loro direzione;
• segnalare con sufficiente anticipo l’intenzione di compiere la manovra, con gli appositi indicatori luminosi di direzione;
• evitare di rallentare o di fermarsi bruscamente, per evitare eventuali tamponamenti.
L’inversione di marcia è consentita sulle strade a doppio senso di marcia a patto che sull’asfalto non ci sia la striscia continua lungo la mezzeria. Se la striscia è discontinua o proprio non è stata disegnata, è possibile fare l’inversione a U.
Dove non è possibile effettuare l’inversione di marcia?
Al di fuori della strada a doppio senso di marcia con linea di mezzeria discontinua o assente, l’inversione di marcia è vietata ovunque.
Secondo il codice della strada, il cambio di direzione non è consentito:
• in autostrada;
• nella strada a doppio senso di marcia che ha la linea di mezzeria continua;
• nei casi (anche nelle strade a doppio senso di marcia) in cui c’è scarsa visibilità, ad esempio perché c’è nebbia fitta o perché l’illuminazione pubblica è assente;
• nelle vicinanze o in corrispondenza di una curva;
• nelle vicinanze o in corrispondenza di un dosso;
• nelle vicinanze o in corrispondenza di un incrocio;
• nelle strade a senso unico di marcia.
Spesso succede che, quando c’è bisogno di fare una manovra «al volo» come un’inversione di marcia, perché si ha fretta o perché tornare indietro rispettando le regole vorrebbe dire percorrere centinaia di metri fino alla prima rotonda, l’automobilista guardi a destra, guardi a sinistra, guardi lo specchietto e, visto che non c’è nessuno, tanto meno la Polizia locale, giri l’auto nel luogo in cui non deve.
Il conducente deve assicurarsi bene che nessuno l’abbia notato perché, nel caso in cui non avesse notato nelle vicinanze un agente o una pattuglia, corre il rischio di pagare una sanzione che va da qualche decina a qualche migliaio di euro.
Nel dettaglio:
• chi fa l’inversione in prossimità o in corrispondenza di incroci, di curve o di dossi rischia una sanzione da 84 a 335 euro;
• chi compie la manovra in condizioni di scarsa visibilità o in prossimità di un raccordo stradale rischia la sanzione da 318 a 1.272 euro, oltre alla sospensione della patente da due a sei mesi;
• chi inverte il senso di marcia in autostrada, nelle rampe o negli svincoli delle strade extraurbane rischia una sanzione da 1.988 a 7.953 euro, oltre alla revoca della patente e al fermo amministrativo dell’auto.

QUALI SONO I CASI IN CUI NON E’ POSSIBILE IPOTECARE UNA CASA?

Se il creditore è un soggetto non esiste un limite al di sotto del quale sia vietato iscrivere un’ipoteca ed eseguire il pignoramento immobiliare. In altri termini, è possibile pignorare una casa anche per un debito di mille euro. L’unico ostacolo è puramente di convenienza: l’esecuzione immobiliare è lunga e costosa; pertanto, non si adatta ai debiti di piccolo importo.

Diverso è il discorso quando il creditore è l’Agenzia Entrate Riscossione. In questo caso, l’ipoteca si può iscrivere solo a patto che:  il debito complessivo per cartelle non pagate sia superiore a 20.000 euro, sia stata prima notificata una cartella esattoriale e siano decorsi 60 giorni dalla notifica stessa e che 30 giorni prima dell’iscrizione dell’ipoteca sia stato notificato al debitore un preavviso di ipoteca.

Il preavviso serve a consentire al debitore di estinguere il debito o chiedere una rateazione.

Esiste il divieto di pignoramento sulla prima casa che vale però solo quando cioè il debito si riferisce a imposte, tasse o sanzioni. Tale divieto opera a patto che il debitore non abbia altri immobili se non quello ove vive, l’abitazione in questione sia adibita a civile abitazione e sia luogo di residenza del debitore e che l’abitazione in questione non sia di lusso, ossia accatastata nelle categorie A/1, A/8 o A/9.

Mancando anche una sola di queste condizioni, la prima casa è pignorabile.

Il fatto che la prima casa non sia pignorabile, però, non esclude che essa possa invece essere ipotecata. In pratica, il divieto posto per l’Agente della Riscossione Esattoriale vale solo per il pignoramento, non anche per l’ipoteca. Risultato: la prima casa si può ipotecare anche se si tratta dell’unico immobile del debitore e se il creditore è l’esattore.

L’eventuale ipoteca sulla prima casa resta come una sorta di “macchia”, di pregiudizio virtuale visto che comunque l’immobile non cambia proprietà, può essere vissuto e, in teoria, anche venduto o donato. Nessuno però acquisterà una casa già ipotecata. Se il debitore quindi dovesse continuare a vivere all’interno dell’immobile, l’ipoteca non sarà per lui un pregiudizio.

Quindi, al contrario di quanto comunemente si crede, si può ipotecare la casa indipendentemente dalle persone che vi vivono all’interno. La casa non può essere però ipotecata se il credito non è stato ancora accertato da un giudice e quindi riportato in una sentenza o un decreto ingiuntivo divenuto definitivo per mancata opposizione nei 40 giorni. Non è possibile ipotecare una casa sulla base di una semplice fattura, una bolletta non pagata, un contratto non onorato, una richiesta di pagamento dell’amministratore di condominio e via dicendo. Deve sempre intervenire il giudice ad accertare il credito e a condannare il debitore.

La cessione dell’usufrutto sulla casa non esclude che si possa ipotecare la nuda proprietà, rispettando chiaramente i diritti dell’usufruttuario. Lo stesso dicasi per quanto riguarda il pignoramento.

Medesimo discorso per il caso in cui sia in corso un contratto di locazione. La presenza dell’affittuario non esclude l’ipotecabilità della casa così come la messa all’asta. Tuttavia, l’aggiudicatario dovrà rispettare il contratto fino alla sua scadenza, non potendo sfrattare l’inquilino.

Si può ipotecare la casa cointestata. E anzi, la si può anche pignorare per intero. L’eventuale prezzo però dovrà essere poi diviso con il comproprietario in proporzione alla quota vantata da quest’ultimo.

Oltre che a seguito di opposizione contro il creditore, da valutare insieme al proprio avvocato, l’ipoteca cessa automaticamente dopo 20 anni dalla sua iscrizione, sempre che il creditore non intenda rinnovarla. Se il credito è caduto in prescrizione, ad esempio, non sarebbe legittimo il rinnovo dell’ipoteca.

Una volta venduta, una casa non può più essere ipotecata. Ma il creditore ha 5 anni di tempo per revocare la vendita o la donazione con la cosiddetta azione revocatoria e così iscrivere l’ipoteca sull’immobile e poi pignorarlo. Deve però agire in tribunale. La prova, nel caso di donazione, sarà la semplice insussistenza di altri beni utilmente pignorabili in capo al debitore; nel caso di vendita invece dovrà dimostrarsi che l’acquirente era a conoscenza del danno causato al creditore.

IN CHE MODO OTTENERE I SOLDI OGGETTO DI TRUFFA ONLINE?

Ancora oggi diventa sempre più facile rimanere vittime di una truffa online. Le tecniche per trarre in inganno sono, ormai, raffinatissime e distinguere ciò che è vero da ciò che è falso è molte volte complicato.

Secondo una direttiva del Parlamento europeo, il contratto sottoscritto tra la banca ed il cliente deve prevedere la possibilità per l’istituto di bloccare una carta di credito o un Bancomat in maniera autonoma, nel caso in cui abbia il sospetto che qualcuno lo stia utilizzando in maniera fraudolenta. Ad ogni modo la banca deve informare il cliente che sta per bloccare la carta. La banca deve adottare qualsiasi possibile accorgimento per garantire la sicurezza e per tutelare tecnicamente il cliente in modo tale da impedire che qualcuno possa accedere ai dati della sua carta.

Nel momento in cui si scopre che sono stati rubati dei soldi dalla carta di credito, innanzitutto occorre contattare la società che l’ha emessa per bloccarla e sporgere denuncia alle forze dell’ordine. Nel caso in cui si neghi di avere autorizzato determinate operazioni di pagamento, sarà la banca a dover provare che il cliente ha autenticato la transazione oppure non ha adottato le dovute precauzioni per evitare una frode. Se la banca non riesce a dimostrare la colpa del cliente, è tenuta a rimborsare l’importo dell’operazione non riconosciuta. Ad ogni modo, secondo la normativa europea, il rimborso non impedisce alla banca di dimostrare successivamente che la transazione era stata autorizzata dal cliente.

Diverso il caso di chi crede di fare un acquisto in un sito vero ma, in realtà, si trova davanti alla pagina di un falso portale di e-commerce. Si tratta spesso di messaggi che giungono via e-mail in cui si avverte di pacchi non consegnati, di accrediti sul conto non andati a buon fine, di verifiche di credenziali per presunti tentativi di intrusione in un account, per non parlare dei fantomatici premi vinti chissà dove e come. In tutti questi casi, e in altri come questi, l’utente si trova su false pagine ricreate alla perfezione e provenienti da indirizzi che somigliano a quelli originali. Facile, dunque, essere tratti in inganno.

È il cosiddetto phishing: il truffatore invita a cliccare su un link che indirizza ad un sito creato ad hoc per concludere il malaffare: al malcapitato viene chiesto di accedere utilizzando i suoi dati personali e quelli del conto corrente o della carta di credito per improbabili «verifiche». Lo stesso accade con il cosiddetto «smishing»: i messaggi ingannevoli, in questo caso, non arrivano per posta elettronica ma via sms.

In questi casi come è possibile  recuperare i soldi?

Chi scopre di avere subìto una truffa online deve, innanzitutto, presentare una denuncia-querela presso un commissariato di Polizia o una stazione dei Carabinieri, tenendo conto che su questa materia è competente anche la Polizia postale. Bisognerà raccontare come sono avvenuti i fatti e fornire ogni documento utile alle indagini, ad esempio la stampa delle e-mail ricevute, eventuali ricevute fasulle, l’estratto conto della carta di credito o del conto corrente in cui si dimostra il pagamento effettuato.

Occorre agire entro tre mesi dal giorno in cui ci si è accorti di essere stati truffati, anche se la cosa più saggia è rivolgersi alle forze dell’ordine quanto prima affinché le indagini partano subito.

Qualora il truffatore venga rintracciato, egli dovrà non solo restituire i soldi incassati illecitamente ma anche risarcire il danno causato al consumatore.

DIRITTO ALLA PRIVACY IN CONDOMINO: COSA RISCHIA L’AMMINISTRATORE?

Anche in condominio deve essere tutelato il diritto alla privacy. Tuttavia si deve tener conto della sicurezza comune, dalla condivisione degli stessi spazi e delle risorse economiche.

Questo vuol dire che ci sono alcuni dati che devono essere accessibili ai residenti dello stabile come, ad esempio, le generalità del titolare dell’immobile o lo stato dei pagamenti dello stesso, l’eventuale voto esercitato nel corso di una precedente assemblea.

Il responsabile del trattamento dei dati è l’amministratore. Ed è proprio questa responsabilità che, se non saputa gestire correttamente, potrebbe fondare la richiesta di risarcimento per chi dovesse vedere le proprie informazioni personali rivelate a soggetti privi di alcun interesse.

Ma quali sono le informazioni che l’amministratore può fornire in merito ai singoli condomini senza violare la loro privacy?

Egli deve innanzitutto consentire a ciascun condomino l’accesso alla documentazione contabile condominiale.

In ogni caso, l’amministratore non può mai rivelare dati sensibili dei condomini quali lo stato di salute, l’orientamento sessuale, le convinzioni religiose, ecc.

I dati dei singoli condomini sono custoditi nell’anagrafe condominiale, un registro che deve essere custodito dall’amministratore. Ma questi non ne è proprietario, infatti, la titolarità del registro è di tutto il condominio, quindi anche dei singoli condomini che vi possono accedere in qualsiasi momento senza doverne motivare le ragioni.

L’amministratore è tenuto a comunicare ai condomini che gliene facciano richiesta i nomi dei morosi, di chi cioè non è in regola con i pagamenti. Tali nomi possono essere comunicati anche nel corso dell’assemblea, a patto però che, alla stessa, non partecipino soggetti esterni al condominio.

Spesso accade che, all’atto delle trattative per l’acquisto di un appartamento, l’acquirente voglia conoscere lo stato dei pagamenti delle quote condominiali relative all’unità immobiliare in questione. Ciò perché egli sarà responsabile, in solido col venditore, per tutti i debiti relativi all’anno in cui il rogito viene comunicato all’amministratore e a quello precedente. Ma tale informazione non gli può essere rivelata dall’amministratore, essendo l’acquirente ancora un soggetto estraneo al condominio. Quindi l’amministratore, per non violare la privacy del venditore, dovrà rilasciare l’attestazione solo a quest’ultimo, che a sua volta la consegnerà all’acquirente.

Ancora è necessario sapere che non è possibile affiggere in bacheca avvisi per il pagamento delle quote con l’indicazione dei condomini che ancora non hanno regolarizzato la propria posizione. La bacheca infatti è di norma collocata in un luogo accessibile a tutti, anche agli estranei, sicché le informazioni in essa contenute devono preservare la privacy dei condomini da occhi indiscreti.

Allo stesso modo, la bacheca non può contenere l’indicazione dell’ordine del giorno di un’assemblea se in esso vi è il riferimento a uno o più condomini.

Se da un lato il singolo condomino può sì installare telecamere di sicurezza private a tutela della propria abitazione, queste non possono tuttavia inquadrare gli spazi comuni a meno che non si tratti di un impianto di videosorveglianza condominiale, voluto dall’assemblea.

I diritti che consentono limitazioni alla privacy dei condomini spettano solo ai condomini stessi e non ai terzi che, a seguito di un contratto di affitto, abbiano la detenzione dell’immobile. Questi infatti non possono essere considerati “condomini”.

L’illecito commesso dall’amministratore che viola la privacy dei condomini dà diritto alla vittima a esigere il risarcimento del danno a seguito di una causa civile. Attenzione però: l’amministratore potrebbe essere condannato anche penalmente.

MARITO E MOGLIE POSSONO AVERE DUE PRIME CASE PER NON PAGARE L’IMU?

Sappiamo bene che la legge prevede l’esenzione dal pagamento Imu per l’abitazione principale. Quando si parla di «abitazione principale» si intende la casa che è sia il luogo di residenza del contribuente che il luogo di dimora abituale del contribuente stesso.

In una coppia di coniugi, non si paga l’Imu per la casa in cui la famiglia è residente e vive.

In una coppia ove entrambi i coniugi hanno casa di proprietà e vivono entrambi in una di queste, l’esenzione Imu spetta una sola volta. La ragione è semplice: per una delle due abitazioni mancherebbe il requisito della «dimora abituale». In ogni caso, la coppia può liberamente indicare al Comune su quale delle due case intende ottenere l’esenzione, pagando invece l’Imu sull’altra.

Nonostante quanto appena detto, una coppia sposata ove entrambi i coniugi hanno casa di proprietà può ugualmente ottenere, per ciascuna di esse, l’esenzione Imu . Ma ciò solo a patto che ogni immobile deve essere sia «residenza» che «dimora abituale» del relativo proprietario. Ciò tuttavia implicherebbe che marito e moglie vivano separati.

Come si possono dunque avere due dimore abituali distinte? Bisognerebbe ammettere che marito e moglie vivono separati. Il che, oltre ad essere inverosimile, è anche contrario allo stesso Codice civile (in particolare all’articolo 143 Cod. civ.) che indica, tra gli obblighi del matrimonio, quello della convivenza.

La Corte Costituzionale spiega come, nulla esclude che i coniugi concordino di vivere e dormire sotto tetti differenti ricongiungendosi periodicamente, ad esempio nel fine settimana. Il che succede, ad esempio e il più delle volte, in presenza di necessità lavorative che impongano di stare separati.

A questo punto, se un coniuge vive in una casa più vicina al proprio lavoro e l’altro in un’altra, entrambi possono beneficiare dell’esenzione Imu per l’immobile in cui dimorano e sono residenti.

L’importanza della pronuncia della Corte Costituzionale sta anche nell’aver sancito la possibilità di ottenere una doppia esenzione Imu, per entrambi i coniugi che risiedano e vivano separatamente, anche se i due immobili si trovano nello stesso Comune.

Il Comune è comunque tenuto ad effettuare dei controlli per accertare che effettivamente moglie e marito vivano in immobili diversi. Ad esempio verificando i consumi delle utenze: è chiaro infatti che se un immobile dovesse essere disabitato.

E’ POSSIBILE IL LICENZIAMENTO VERBALE?

La legge prevede che il datore di lavoro che intende interrompere anticipatamente il rapporto di lavoro con un dipendente deve obbligatoriamente comunicargli il licenziamento in forma scritta. Non è prevista una particolare modalità, solitamente viene utilizzata la forma scritta della raccomandata. Tuttavia, se il dipendente si rifiuta di ricevere la lettera, la comunicazione si intende, comunque, avvenuta e provoca i suoi effetti.

Il datore può anche intimare il licenziamento con altri metodi, purché sempre in forma scritta: è stato ritenuto legittimo, ad esempio, il recesso comunicato tramite WhatsApp o come allegato ad un messaggio di posta elettronica, il cui ricevimento non era stato contestato.

Se inoltre, il licenziamento non avviene per giusta causa ma per giustificato motivo soggettivo, la comunicazione deve contenere i termini del preavviso.

Gli effetti del licenziamento si hanno dal giorno della contestazione dell’addebito, salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva oppure se è stato intimato nel periodo di maternità, di paternità o di impedimento causato da infortunio sul lavoro. In questo caso, gli effetti del licenziamento restano sospesi.

Ovviamente possiamo facilmente dedurre che non è possibile licenziare a voce un dipendente, è necessaria la forma scritta. Nulla vieta al datore di lavoro di anticipare verbalmente al lavoratore che sta per partire la lettera di recesso ma quella comunicazione, nero su bianco, deve essere fatta affinché il provvedimento sia legittimo.

Cosa fare nel caso in cui quella comunicazione non arrivi mai e il datore impedisca al dipendente di lavorare ?

In questo caso sarà necessario rivolgersi al Tribunale del lavoro competente per territorio per impugnare il licenziamento illegittimo tenendo ben presente che:

  • per contestare un licenziamento a voce non viene applicato il termine di decadenza di 60 giorni previsto per i ricorsi contro un provvedimento espulsivo comunicato per iscritto;
  • l’azione per far valere l’inefficacia del licenziamento verbale non è subordinata all’impugnazione stragiudiziale, cioè alla lettera inviata al datore con cui si contesta il provvedimento o al tentativo di conciliazione presso la Direzione territoriale del lavoro.

Il dipendente può agire entro il termine di prescrizione di cinque anni.

In questi casi è bene sapere che chi è stato assunto prima del 7 marzo 2015 ha diritto non solo alla reintegrazione nel posto di lavoro, ma anche al risarcimento del danno e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti dalla data del licenziamento orale a quella della reintegrazione.

Il dipendente licenziato verbalmente potrebbe anche decidere di scegliere di non rientrare in azienda e, in tal caso, l’azienda è tenuta a pagargli un’indennità sostitutiva, decisa dal giudice.

Chi, invece, è stato assunto dal 6 marzo 2015 in poi ha diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, con l’opzione di non rientrare in cambio di un’indennità sostitutiva. Se, invece, decide di tornare in azienda, dovrà riprendere servizio entro 30 giorni, pena la risoluzione del rapporto.

Il risarcimento non può mai essere inferiore a cinque mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento.

UN PREMIO PER CHI RISPARMIA: BONUS ENEL SENZA ISEE

Il caro bollette luce e gas sta mettendo in ginocchio le famiglie e le imprese italiane: secondo i dati dell’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera), l’aumento dei costi di energia elettrica sta pesando in modo notevole sulle tasche degli italiani, che spenderanno oltre mille euro l’anno, secondo le stime de Il Sole 24 Ore.

Negli ultimi mesi la ricerca ha analizzato la variazione delle stime della spesa annua. Per le famiglie costituite da due persone i consumi annui sono inferiori ai 2000 chilowattora. L’aumento dei costi energetici è pari a 800 euro. Per un nucleo familiare costituto da 3 persone, il balzo delle spese energetiche arriverà a oltre 1.700 euro all’anno. Per le famiglie costituite da 4 componenti la spesa dei consumi energetici passerà a oltre 2600 euro all’anno per il 2022.

Per quanto concerne i rincari di energia elettrica, l’Unione Nazionale Consumatori (UNC) ha messo in evidenza che la revisione più evidente delle tariffe è quella messa in atto ad ottobre. Secondo uno studio condotto dall’Unione Nazionale Consumatori (UNC) la bolletta energia elettrica nel periodo che va dal primo ottobre del corrente anno alla fine di settembre sarà di oltre 1.700 euro.

Si tratta di un vero e proprio rialzo senza precedenti. Se i prezzi subiscono un incremento di 60 punti percentuali, in considerazione a quelli attuali e rispetto allo scorso anno, salgono di oltre centoventi punti percentuali.

La nota multinazionale italiana dell’energia ENEL ha deciso di far partire il Bonus ENEL senza ISEE: ciò ha consentito di far risparmiare i suoi consumatori.

ENEL ha deciso di erogare il Bonus senza ISEE per agevolare i propri clienti. Il bonus Enel senza ISEE premia tutti coloro che risparmiano. Pertanto, chi adotta comportamenti virtuosi e buone abitudini che consentono di risparmiare energia, viene premiato con un Bonus senza ISEE.

È bene risparmiare energia adottando i seguenti comportamenti, tra cui spegnere le luci nella stanza non utilizzata, fare poche lavatrici e utilizzare il meno possibile il forno elettrico. Fino a questo momento l’uscente Governo Draghi ha erogato il bonus 200 euro e a breve dovrebbe essere accreditato anche il bonus pari a 150 euro. Adesso Enel ha deciso di scendere in campo erogando un’interessante Bonus senza ISEE.

Sembrerebbe che il Bonus ENEL senza ISEE spetta a tutti coloro che risparmieranno energia elettrica nel corso dell’ultimo trimestre dell’anno 2022. I clienti si vedrebbero accreditato il bonus nella bolletta dell’anno 2023.

COME PROTEGGERE IL PATRIMONIO IN CASO DI DIVORZIO

Quando si interrompe un matrimonio le conseguenze si ripercuotono anche sul patrimonio dei coniugi. Da quel momento ciò che prima era della famiglia, dovrà essere ridistribuito. Oltre all’assegno di mantenimento, necessario a conservare lo status economico, occorre porre la necessaria attenzione anche sulla conservazione del patrimonio e della casa.

La giurisprudenza prevede che i figli debbano essere mantenuti da entrambi i genitori fino al raggiungimento dell’indipendenza economica, che può avvenire anche dopo il raggiungimento della maggiore età.

La scelta in merito al regime patrimoniale deve essere fatta durante la celebrazione del matrimonio. In mancanza di una dichiarazione in merito da parte dei coniuge, viene applicata sempre la comunione dei beni. Una delle caratteristiche principali di questo regime patrimoniale consiste nel fatto che i beni acquistati durante il matrimonio divengono comuni ad entrambi i coniugi, anche se è intervenuto solo uno dei coniugi all’atto di acquisto. Fanno parte della comunione tutti quei beni che sono stati acquistati congiuntamente o separatamente dai coniugi dopo il matrimonio.

Alternativamente a questo, la legge permette l’applicazione del regime patrimoniale di separazione. In questo caso i coniugi mantengono separati i rispettivi patrimoni. Ciascun coniuge rimane proprietario dei beni che possedeva prima del matrimonio e di quelli che acquista successivamente.

In caso di separazione o divorzio, le conseguenze sul patrimonio familiare sono legate al fatto che i coniugi si siano uniti in regime di comunione o di separazione dei beni.

L’art.177 c.c. prevede che costituiscono oggetto della comunione:

  • i beni acquistati, insieme o separatamente, durante il matrimonio ad esclusione di quelli personali
  • i frutti dei beni propri di ciascun coniuge, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione
  • i proventi dell’ attività separata di ciascun coniuge, se non consumati al momento dello scioglimento della comunione
  • le aziende gestite da entrambi i coniugi e costituite dopo il matrimonio.

Non rientrano, invece, nella comunione i beni ricevuti in donazione o in eredità e i beni ricevuti a titolo di risarcimento danni.

Con la separazione dei coniugi decade il regime della comunione dei beni e pertanto tutti i beni devono essere divisi in parti uguali tra i coniugi, inclusi i debiti, come per esempio un mutuo. I beni indivisibili per natura, sono oggetto di vendita e il ricavato viene diviso equamente. Qualora, invece, i coniugi hanno scelto il regime della separazione dei beni, le controversie che potrebbero insorgere sono poche perché ognuno resta titolare dei propri beni.

Nel momento in cui i due coniugi decidono di lasciarsi, in mancanza di accordo tra di loro, è il giudice a regolare i loro rapporti, tenendo conto che il coniuge con il reddito più elevato paghi all’ex coniuge un assegno di mantenimento a meno che non sia giovane e formato da poter trovare un’occupazione; la casa coniugale è affidata al genitore con cui vivranno i figli, anche se questi non ne è il proprietario ed i coniugi hanno scelto la separazione dei beni.

Se ci troviamo nel caso in cui un coniuge sia il proprietario esclusivo dell’immobile e non ci sono figli a carico l’assegnazione della casa andrà quasi sicuramente a lui. Tuttavia, in casi di gravi condizioni di salute del coniuge non proprietario che non gli consentono di allontanarsi, le cose potrebbero andare in maniera diversa e potrebbe continuare a mantenere un diritto di abitazione.

Se però, sono presenti figli, l’interesse prioritario è il loro. Al momento della separazione, il tribunale assegna la casa coniugale al genitore con cui andranno a convivere i figli, anche se non ne è il proprietario .

Nel caso di separazione o divorzio in presenza di mutuo sulla casa coniugale, per la Banca non ha importanza chi avrà il diritto di abitazione, ma colui con cui ha stipulato il contratto di mutuo. Il mutuo è considerato un contratto autonomo rispetto a quello coniugale.

Dunque, anche in caso di rottura del vincolo matrimoniale matrimoniale le condizioni contrattuali restano le medesime. Tuttavia, il Giudice potrebbe intervenire per garantire una maggior tutela di uno dei due coniugi o dei figli.