Archivio mensile Ottobre 24, 2022

QUALI SONO LE CONSEGUENZE SE NON SI PAGA UNA BOLLETTA?

Al giorno d’oggi non è sempre facile stare al passo con i pagamento delle bollette. Da circa un anno gli importi sono in salita e da quando la Russia ha attaccato l’Ucraina la situazione è nettamente peggiorata. C’è stata una pesante inflazione sui costi energetici e di conseguenza l’inflazione ha invaso tutti i settori.

Se costa di più la produzione di un qualsiasi prodotto perché è più cara l’energia, costerà di più ogni cosa, dalla distribuzione fino all’acquisto finale del consumatore. Una catena spaventosa che vediamo tutti i giorni nella spesa quotidiana e nelle bollette. Con le temperature che prossimamente saranno più basse e il gas che pagheremo più dell’anno scorso, gli importi saranno ancora maggiori.

Non è difficile dunque ipotizzare che qualcuno non ce la farà a pagare le bollette. C’è disoccupazione, precarietà e gli stipendi per la maggior parte degli italiani sono bassi. Non a caso il governo e le Regioni stanno mettendo in campo diverse misure come i bonus per fronteggiare la crisi.

Cosa succedere se il saldo finale di una bolletta non sarà coperta? Quando riceviamo la fattura a casa c’è una data entro cui pagare. Innanzitutto ricordiamo che se si paga qualche giorno dopo la scadenza indicata, non succede nulla. Ma se il mancato pagamento si prolunga, è possibile che si trasformi in una cartella esattoriale?

La società fornitrice del servizio con il passare del tempo può certamente staccare la fornitura ma non prima che l’utente abbia ricevuta la diffida con una raccomandata. L’utente inoltre ha anche un’arma a disposizione, presentare un ricorso.

Il mancato pagamento non può trasformarsi in una cartella esattoriale perché questa è uno strumento dell’agente della riscossione, dunque le imposte dovute allo Stato e in particolare se ne occupa la sezione Riscossione dell’Agenzia delle Entrate. Le società di fornitura si affidano ad altre società, esterne, di recupero crediti. Dunque, per una o più bollette non pagate, non è possibile che ci arrivi una  cartella esattoriale.

DOVE FARE RESIDENZA SE NON SI POSSIEDE UNA CASA?

La giurisprudenza definisce una persona senza fissa dimora  chi per lungo tempo non ha un luogo fisso di residenza. Nella maggior parte dei casi si tratta di soggetti che, trovandosi in estreme difficoltà economiche, sono privi di un posto dove stare e perciò vivono in uno spazio pubblico oppure per scelta avendo deciso di vivere ad esempio in una roulotte e di spostarsi continuamente. Si può essere poi senza fissa dimora anche per una ragione specifica, ad esempio per rendersi irreperibili al Fisco.

La legge prevede che l’iscrizione all’anagrafe comunale è un diritto soggettivo riconosciuto dal nostro ordinamento a tutti i cittadini che ne hanno facoltà.

Per la persona senza fissa dimora si utilizza il criterio del domicilio al posto di quello di residenza, intendendo per domicilio il luogo in cui la stessa ha fissato la sede principale dei suoi affari e interessi. Ai fini dell’iscrizione anagrafica della persona senza fissa dimora, si fa riferimento al luogo ove l’interessato ha fissato il proprio domicilio equiparando, eccezionalmente, il domicilio alla dimora abituale.

Se manca il domicilio, la persona si considera residente nel Comune di nascita . Se è nata all’estero, si considera residente nel Comune di nascita del padre o della madre. Deve essere comunque dimostrata la presenza non occasionale di tale soggetto sul territorio nazionale.

La persona senza fissa dimora può chiedere di essere iscritta nel registro dell’anagrafe della popolazione residente in un determinato Comune, presentando un’apposita istanza nella quale dichiara la residenza. Ai fini dell’accertamento vanno valutate, caso per caso, le situazioni personali del soggetto nonché quelle patrimoniali, sociali, esistenziali e relazionali.

Il ministero dell’Interno ha chiarito che il domicilio per essere considerato tale, deve trovarsi ubicato in un preciso immobile o luogo fisico. L’ufficiale d’anagrafe può comunque acquisire prove documentali e dichiarazioni di parte, idonee a dimostrare l’esistenza del domicilio medesimo.

Una volta avvenuta l’iscrizione il Comune evidenzia la posizione anagrafica della persona senza fissa dimora nell’Indice nazionale delle anagrafi (Ina). Tale informazione viene conservata nel Registro delle persone senza dimora di cui è titolare il Dipartimento per gli affari interni e territoriali – Direzione centrale per i servizi demografici presso il ministero dell’Interno.

Se si tratta di una persona assistita da enti assistenziali pubblici o privati, gli elementi per accertare il domicilio sono facilmente individuabili; salvo casi eccezionali, il domicilio di questa persona coincide con la sede della struttura assistenziale di riferimento.

Dopo la presentazione della domanda di iscrizione all’anagrafe comunale da parte di una persona senza fissa dimora, l’addetto all’ufficio deve provvedere alle variazioni richieste nei due giorni lavorativi successivi.

Gli effetti giuridici dell’iscrizione anagrafica decorrono dalla data di presentazione della dichiarazione: pertanto, da quel momento in poi, possono essere rilasciati i certificati di residenza o gli altri documenti per i quali la residenza è condizione necessaria.

Il Comune di iscrizione deve controllare la dichiarazione resa dalla persona senza fissa dimora, entro quarantacinque giorni dalla data della dichiarazione stessa nonché deve verificare se il domicilio del richiedente si trova nel luogo da questi indicato.

Il Comune deve comunicare all’interessato l’esito dei controlli effettuati e tale soggetto ha dieci giorni per rispondere.

L’amministrazione comunale, una volta ricevute le comunicazioni e/o integrazioni dell’interessato, ha ulteriori quarantacinque giorni per la decisione finale.

Se la procedura ha esito negativo l’anagrafe comunale a cui è stata iscritta la persona senza fissa dimora, deve provvedere a cancellare detta iscrizione e il Comune di provenienza deve ripristinare l’iscrizione nella propria anagrafe.

L’istanza per l’iscrizione all’anagrafe comunale presentata da una persona senza fissa dimora deve contenere informazioni veritiere. In caso contrario, la domanda viene segnalata agli organi di polizia e il richiedente può essere sanzionato sia in sede penale sia in sede amministrativa con la decadenza dei benefici eventualmente conseguiti con la falsa dichiarazione.

QUANDO COLPIRE UNA PERSONA CON IL CASCO COSTITUISCE REATO

Colpire una persona al volto , anche se questa abbia indosso un casco integrale da moto, può considerarsi un reato? Secondo la Corte di Cassazione sì.

L’articolo 581 del Codice penale punisce chi percuote un’altra persona, sempre che da ciò non derivino ferite o altri danni. Si parla, in questo caso, di pena che prevede la reclusione fino a sei mesi o la multa fino a euro 309.

Nel reato di percosse, quindi, non devono esserci conseguenze fisiche se non il semplice dolore.

Nel reato di percosse rientrano anche gli schiaffi, la tirata di capelli, il calcio nelle parti basse, lo strattone per un braccio, lo spintone verso un muro in modo da procurare lievi contusioni. Sono tutti comportamenti caratterizzati da energia fisica esercitata con violenza e direttamente sulla persona. 

Se l’azione violenta fosse solo simbolica, rivolta cioè a procurare una sofferenza non già fisica, si ricade nell’ingiuria. L’ingiuria non è più reato dal 2016 e costituisce solo un illecito civile a fronte del quale è possibile chiedere solo un risarcimento del danno.

Ebbene, secondo la Cassazione, si può condannare per il reato di percosse l’automobilista che, in occasione di un diverbio, colpisce con la mano il casco integrale indossato da un motociclista. Il gesto è violento e può procurare dolore alla vittima, seppur protetta dalle conseguenze ben peggiori che l’azione avrebbe potuto comportare se diretta sulla pelle.

Insomma, la presenza del casco è, secondo i giudici supremi, un mero dettaglio che non può far venire meno il reato di percosse.

Per il reato di percosse  è innanzitutto necessario che vi sia un contatto fisico tra l’aggressore e la vittima. Vi deve essere poi un’energia fisica esercitata con violenza.

Dunque, non conta che la persona offesa si giovi di protezioni, quando esse non facciano però venire meno l’idoneità della condotta violenta a produrre un’apprezzabile sensazione di dolore, vale a dire non siano tali da rendere la manifestazione di violenza di entità inavvertibile e simbolica.

COME OTTENERE LA PENSIONE ANTICIPATA A 57 ANNI

La speranza di raggiungere l’età pensionabile prima dei 60 anni è diventata quasi un miraggio. In realtà, però, alcune categorie di lavoratori hanno già i requisiti necessari, sia di età anagrafica minima sia per la contribuzione versata, e quindi possono andare in pensione subito. Ma quali possibilità ci sono per la pensione anticipata a 57 anni?

I lavoratori invalidi civili, con una percentuale riconosciuta di almeno l’80%, possono andare in pensione anticipata ottenendo quasi il medesimo trattamento previsto per la pensione di vecchiaia.

Per accedere alla pensione anticipata per invalidi occorrono almeno 20 anni di contributi. La domanda può essere presentata a partire da un’età minima di 56 anni per le donne e di 61 anni per gli uomini, ma per l’erogazione del trattamento economico occorre attendere il compimento dei 57 anni per le donne, e dei 62 anni per gli uomini .

Le stesse possibilità di pensionamento anticipato sono riconosciute in favore di coloro che prestano assistenza ad un familiare disabile convivente. In questi casi  non ci sono limiti minimi di età per il conseguimento della pensione anticipata, ma occorrono 41 anni di contributi, di cui almeno un anno versato prima del compimento dei 19 anni di età.

Tecnicamente, il risultato si raggiunge attraverso l’Ape sociale: l’anticipo pensionistico riconosciuto, dal 2018, a chi assiste un proprio familiare affetto da un handicap grave e riconosciuto ai sensi della legge 104 con una percentuale di invalidità pari o superiore al 74% e convivente nella medesima abitazione da almeno 6 mesi.

Possono ottenere la pensione anticipata per lavoratori precoci i 57enni che hanno iniziato a lavorare in giovanissima età, ad esempio a 15 anni. Con la Quota 41 alle donne lavoratrici precoci sono richiesti 41 anni e 10 mesi di contributi: un requisito che può essere raggiunto senza problemi alle soglie dei 57 anni di età, se non ci sono state interruzioni nei versamenti durante la storia contributiva della lavoratrice.

Gli uomini, invece, devono avere 42 anni e 10 mesi di contributi versati, quindi difficilmente un lavoratore 57 enne potrà aver maturato i requisiti, a meno che non abbia iniziato a lavorare prima del compimento dei 15 anni, come talvolta accade per i lavori “leggeri”, che sono consentiti a partire dai 14 anni di età.

I lavoratori, sia uomini che donne che hanno svolto lavori usuranti (cioè mansioni particolarmente gravose e pesanti: come gli operai che scavano gallerie e miniere, i conducenti di autobus e i turnisti notturni) possono beneficiare della Quota 41 e quindi andare in pensione a 57 anni di età con 41 anni di contributi, se hanno iniziato a lavorare prima del compimento dei 16 anni.

In questi casi, il requisito contributivo minimo è “tagliato” rispetto ai lavori comuni: si accede alla pensione anticipata – sommando età anagrafica e anni di contribuzione – con quota 97,6 per i dipendenti e 98,6 per gli autonomi, quindi, rispettivamente, a 61 anni e 7 mesi o a 62 anni e 7 mesi; ma se chi ha svolto lavori usuranti è anche un lavoratore precoce può abbreviare ulteriormente i tempi grazie a Quota 41, come abbiamo spiegato nel paragrafo precedente.

Chi ha compiuto i 57 anni di età può ottenere la pensione anticipata attraverso la Rita, acronimo di Rendita integrativa temporanea anticipata. La Rita non è una vera e propria pensione, ma una rendita riservata a chi ha partecipato ad un piano di previdenza complementare ed è disoccupato di lunga durata.

MANCATO USO DELLA CINTURA DI SICUREZZA: CHI E’ RESPONSABILE

Non tutti sanno che non indossare la cintura di sicurezza o non allacciare un bambino a bordo all’apposito dispositivo di ritenuta comporta una sanzione da 83 a 332 euro e a decurtazione di cinque punti dalla patente.

La multa va, invece, da 40 a 162 euro se la cintura viene messa in modo scorretto, tale da non consentire il suo uso corretto. Anche in questo caso si perdono cinque punti.

Se il mancato uso riguarda un minore (anche adolescente) ne risponde il conducente o, se presente in auto, chi è tenuto alla sorveglianza del ragazzino. In caso di doppia violazione nell’arco di due anni, oltre alla sanzione amministrativa scatta quella accessoria della sospensione della patente da 15 giorni a due mesi.

La cintura va indossata ogni volta che la macchina è accesa, anche quando è ferma in colonna o in attesa che scatti il verde al semaforo. Solo quando è a motore spento sul ciglio della strada è possibile slacciare il dispositivo.

Se l’auto viene fermata durante un normale controllo stradale e il passeggero (maggiorenne, però) viene trovato senza cintura, ne risponde l’accompagnatore stesso. Sarà lui, dunque, e non il conducente a pagare la sanzione che, in termini economici, ha lo stesso importo rispetto a quella per il conducente che non mette la cintura. Quindi, da 80 a 332 euro oppure da 40 a 162 se la indossa in modo scorretto.

L’automobilista risponde nel caso in cui chi si trova in auto senza il dispositivo è un minorenne. Chi si trova alla guida, infatti, deve verificare in modo scrupoloso che il minore viaggi in sicurezza. Si salva solo se a bordo c’è chi è tenuto alla sorveglianza del minore (ad esempio, i genitori): in tal caso sarà quest’ultimo a dover pagare la sanzione, senza la decurtazione dei punti.

Se il passeggero viene scoperto senza cintura in seguito ad un incidente stradale, le cose cambiano. Alla responsabilità amministrativa per l’eventuale violazione del Codice della strada si possono aggiungere, infatti, delle responsabilità di tipo civile, come il risarcimento del danno, o penali, per le lesioni o l’omicidio stradale.

Da questi due punti di vista, civile e penale, è bene sapere che  il conducente può essere chiamato in causa nell’eventuale richiesta di risarcimento e in sede penale.

Poco conta, sostiene la Cassazione, che a causare il sinistro sia stato un altro automobilista: il conducente deve essere sicuro che il passeggero metta la cintura, a costo di non mettere in moto la macchina e di invitarlo a scendere se non lo fa.

Lo stesso succede nel caso in cui l‘accompagnatore perda la vita nell’incidente: ad essere chiamato in causa e a doverne rispondere sarà chi si trovava alla guida.

Il passeggero viene risarcito sempre dall’assicurazione del conducente in caso di incidente stradale, se riesce a dimostrare che i danni riportati siano conseguenza del sinistro. Tuttavia, un’ordinanza della Cassazione  ha stabilito che, in caso di incidente in cui rimane coinvolto un passeggero senza la cintura di sicurezza, ci sono gli estremi per il concorso di colpa. In pratica, al passeggero viene ridotto il risarcimento per i danni riportati nel sinistro.

Significa che, anche se viene dimostrato il nesso causale tra l’incidente e le ferite, verrà riconosciuto un risarcimento minore per il mancato uso del dispositivo di sicurezza.

COME E QUANDO INCASSARE UN’ASSICURAZIONE SULLA VITA

L’assicurazione sulla vita è una particolare polizza che viene stipulata da chi è interessato a ricevere un capitale (o una rendita) al verificarsi di un evento riguardante la vita umana.

A differenza dell’assicurazione contro i danni, quindi, la polizza vita non ha ad oggetto il pagamento di un risarcimento nel caso in cui si verifichi un sinistro o un determinato fatto che incide negativamente sul patrimonio dell’assicurato.

Grazie all’assicurazione sulla vita si matura il diritto a un capitale al verificarsi di un evento che riguarda la vita dell’assicurato.

L’assicurazione sulla vita può essere essenzialmente di due tipologie:

  • l’assicurazione per il caso di morte (o polizza caso morte), in cui l’evento per cui si stipula il contratto è la morte dell’assicurato;
  • l’assicurazione per il caso di sopravvivenza (o polizza caso vita), in cui l’evento è rappresentato dalla sopravvivenza dell’assicurato oltre una certa età o una certa data.

Classico esempio di polizza caso morte è quella che si stipula per garantire agli eredi una rendita dopo il decesso dell’assicurato; un’ipotesi tipica di polizza caso vita è invece quella di chi, per garantirsi un capitale per la terza età, decide di pagare un premio fino a quando avrà raggiunto l’età della pensione.

Dunque lo scopo dell’assicurazione sulla vita è di tipo previdenziale, al contrario di ciò che accade con la classica assicurazione contro i danni.

Il beneficiario dell’assicurazione sulla vita non è necessariamente colui che paga il premio periodico.

Ciò è evidente nel caso di polizza caso morte: alla morte dell’assicurato, necessariamente il capitale andrà versato a un soggetto diverso, che risulterà quindi essere il beneficiario.

Per essere più precisi, all’interno dell’assicurazione sulla vita è possibile distinguere:

  • il contraente, che è colui che materialmente sottoscrive la polizza, paga i premi periodici e si occupa di tutta la parte amministrativa;
  • l’assicurato, che è il soggetto sulla cui vita la polizza viene stipulata. L’assicurazione contratta per il caso di morte di un terzo necessita obbligatoriamente del suo consenso;
  • il beneficiario cioè la persona a cui l’assicurazione dovrà pagare il capitale o la rendita al verificarsi dell’evento dedotto nella polizza.

L’indennizzo per il beneficiario della polizza vita scatta nel momento in cui si verifica l’evento previsto nel contratto, cioè la morte dell’assicurato o la sua sopravvivenza oltre una certa data o età.

È tuttavia possibile procedere al riscatto anticipato della polizza vita, cioè alla richiesta dell’indennizzo anche nel caso in cui l’evento di riferimento non si verifichi.

In questo caso, la polizza viene interrotta e l’agenzia assicurativa avrà il compito di procedere al versamento dell’importo assicurato sul conto corrente del diretto interessato.

Di norma, sia nel caso di riscatto anticipato che di pagamento dell’indennizzo per via del verificarsi dell’evento previsto nel contratto (sopravvivenza o morte dell’assicurato), per incassare un’assicurazione sulla vita occorre attendere non più di 30 giorni, salvo che il contratto non disponga diversamente.

Il termine decorre dal momento in cui l’assicurazione ha avuto conoscenza:

  • della volontà di effettuare il riscatto anticipato;
  • del verificarsi dell’evento (morte o sopravvivenza) previsto nel contratto.

In entrambi i casi, all’assicurazione andrà trasmessa tutta la documentazione prevista nel contratto e necessaria per mettere la società in condizioni di poter verificare la regolarità della posizione del beneficiario.

Ma attenzione: non è detto che l’assicurazione sia disposta a pagare per ogni tipo di morte. Ad esempio, la legge esclude espressamente il pagamento dell’indennizzo nel caso in cui l’assicurato si sia suicidato prima che siano trascorsi due anni dalla stipulazione del contratto, salvo che la polizza disponga diversamente.

Ciò chiaramente è stato previsto per evitare che un soggetto possa assicurarsi solamente per far arricchire immediatamente i beneficiari.

TESTIMONIANZA IN CASO DI INCIDENTE: CHI PUO’ FARLO?

Non tutti possono essere chiamati a deporre come testimoni in una causa civile. Ci sono dei casi in cui la legge nega questa capacità di testimoniare. Si tratta di chi potrebbe essere parte in causa o parte interessata nella vicenda.

Chi può, quindi, essere chiamato a testimoniare?

In passato, la legge era piuttosto severa a proposito della capacità dei parenti di testimoniare. Non consentiva, infatti, di farlo al coniuge, ai parenti in linea retta (nonni, genitori, figli, nipoti) e agli affini in linea retta (genero e nuora, ad esempio) .

La Corte costituzionale, però, ha abrogato la citata norma del Codice di procedura civile. Significa che oggi è possibile testimoniare a favore di un parente anche stretto senza che la deposizione possa essere respinta da un tribunale.

Conta, dice la giurisprudenza, il fatto di stabilire se il sinistro sia stato provocato da un veicolo rimasto ignoto, non la premura avuta dalla vittima nel tentare di individuare il responsabile. Cosa, peraltro, abbastanza difficile per un pedone che viene sbattuto a terra e che, nello stordimento generale e per l‘effetto dei traumi subiti, l’ultima cosa a cui pensa è a prendere il numero di targa dell’auto che sta fuggendo.

Un caso, dunque, in cui è ammissibile la testimonianza dei congiunti che, comunque, deve essere confrontata con i referti dei soccorritori e con il verbale della Polizia in cui si raccoglie la dinamica del sinistro.

Attenzione, però: il fatto che venga accettata la testimonianza dei parenti non significa che questa venga ritenuta attendibile: il giudice, dopo aver esaminato tutti gli altri documenti, può ritenere che il racconto «penda» talmente tanto dalla parte della vittima da risultare poco credibile.

COSA CONTROLLARE QUANDO LE CARTELLE VENGONO NOTIFICATE VIA PEC?

Oggi quasi sempre la cartella esattoriale viene inviata  in formato digitale . Questo fa risparmiare parecchio tempo e spazio.

Anche il protocollo di trasmissione è interamente elettronico e nel nostro caso la prova del recapito della cartella di pagamento notificata è data dalla Rac, la ricevuta di avvenuta consegna della Pec nella casella del destinatario, che ha la stessa funzione della tradizionale cartolina scritta per le raccomandate con avviso di ricevimento, o della relata di notifica fatta dal pubblico ufficiale. Questo comporta che anche la notifica Pec su casella piena è valida, perché comunque il documento è entrato nella sfera di disponibilità del destinatario.

Dal 2016 le notifiche delle cartelle esattoriali possono avvenire a mezzo Pec nei confronti di tutti i soggetti obbligati per legge a dotarsi di un valido indirizzo di posta elettronica certificata. Quindi tutte le società ed  imprese, le ditte individuali (compresi  gli artigiani) ed anche i professionisti iscritti negli Albi tenuti dagli Ordini o Collegi di appartenenza possono ricevere la notifica degli atti di riscossione sulla propria casella Pec; per le altre categorie di soggetti, invece, nulla è cambiato e la notifica avviene ancora in maniera tradizionale, con consegna fisica dell’atto all’indirizzo del destinatario.

È possibile, per i contribuenti persone fisiche non obbligati ad avere la Pec ma che sono comunque dotati di una casella di posta elettronica certificata, chiedere espressamente all’Agenzia delle Entrate di voler ricevere la notifica di eventuali atti sulla Pec anziché in modalità cartacea.

La richiesta può essere fatta in via telematica dalla propria area riservata sul sito dell’Agenzia delle Entrate, comunicando l’indirizzo Pec scelto, sul quale l’ufficio invierà un codice di validazione per assicurarsi dell’esistenza della casella e del suo effettivo possesso in capo al richiedente; in caso positivo, la scelta avrà effetto dal quinto giorno lavorativo successivo.

La legge dispone che la notificazione telematica degli atti deve essere eseguita «utilizzando esclusivamente un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante che compare negli elenchi pubblici». La notifica proveniente da altri indirizzi Pec, non ricompresi nei suddetti elenchi, è da considerarsi nulla, o, come ritiene la giurisprudenza più recente, addirittura «inesistente», quindi insanabile anche se il destinatario ha comunque avuto conoscenza del contenuto dell’atto notificato.

Nelle numerose occasioni in cui la giurisprudenza si è pronunciata, si trattava di cartelle esattoriali formate veramente dagli uffici dell’Agenzia Entrate Riscossione, ma provenienti da indirizzi Pec diversi rispetto a quelli “ufficiali” e contenuti nei rispettivi registri. In questo modo il cittadino destinatario dell’atto non aveva modo di controllare se effettivamente la cartella notificata era autentica e se proveniva davvero dall’Agenzia Entrate Riscossione. Un esempio concreto è quello delle cartelle inviate dall’indirizzo «notifica.acc.campania@pec.agenziariscossione.gov.it», o «notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it», anziché da quello iscritto nel pubblico registro, che è «protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it».

La normativa tributaria , tuttavia, nella formulazione vigente dal 2017 specifica che è l’indirizzo del destinatario della notifica che deve risultare nell’indice nazionale degli indirizzi di posta elettronica certificata, non quello del mittente. Perciò l’Agenzia Entrate Riscossione aveva esteso gli indirizzi di partenza, quelli da cui vengono inviati gli atti da notificare ai contribuenti, ad alcune caselle di cui sono dotate i propri uffici territoriali periferici, che però non comprese nei suddetti elenchi, e la giurisprudenza ha ritenuto invalida questa soluzione.

Se si riceve una cartella di pagamento via Pec da un indirizzo “non ufficiale” dell’Agenzia Entrate Riscossione, in quanto non riportato nel registro Ipa, e sono ancora aperti i termini per fare ricorso (60 giorni dalla data di ricezione) si può impugnare l’atto presso la Corte di giustizia tributaria competente (l’ex Commissione tributaria) sostenendo l’invalidità della notifica e, stante l’attuale orientamento della giurisprudenza, hai fondate probabilità di accoglimento.

Nel prossimo futuro, però, le cose cambieranno: come abbiamo visto, l’Agenzia Entrate Riscossione si è adeguata e ha provveduto ad aggiornare i propri indirizzi Pec inserendo nel registro pubblico quelli finora mancanti, ma utilizzati dagli uffici regionali e provinciali per notificare le cartelle esattoriali.

QUANDO E’ POSSIBILE SALTARE IL PERIODO DI PROVA?

Il periodo di prova è un istituto del contratto di lavoro subordinato il cui obiettivo è garantire a datore di lavoro e dipendente di valutare, per un certo arco di tempo, la convenienza del rapporto.

Nel corso della prova, comunque soggetta a un determinato termine di durata, operano tutti i diritti e gli obblighi di un rapporto di lavoro dipendente con la sola particolarità che le parti, azienda e lavoratore, hanno la possibilità di interrompere il rapporto, senza obbligo di preavviso né motivazione.

Una volta conclusa la prova, se entrambi le parti ne ritengono positivo l’esito, l’assunzione diventa definitiva e il periodo lavorato si computa nell’anzianità di servizio.

Vista la delicatezza della prova, in particolare rappresentata dalla «facilità» nell’interrompere il contratto, la giurisprudenza si è espressa negli anni sulla possibilità di reiterare il periodo di prova in successivi rapporti tra le stesse parti.

La situazione è radicalmente cambiata con l’entrata in vigore del decreto «Trasparenza», grazie al quale si è arrivati a un’opinione definitiva sulla ripetizione del periodo di prova.

Secondo la giurisprudenza è legittima l’apposizione di un periodo di prova, nel caso in cui vi sia un radicale e consensuale mutamento di mansioni.

Il periodo di prova può essere riproposto in uno nuovo contratto tra le stesse parti se, in precedenti rapporti, l’esperimento non è stato effettuato in tutto o in parte.

La giurisprudenza di Cassazione (sentenza del 12 dicembre 1986 numero 25368) ha affermato che la ripetizione del patto di prova è ammissibile in «successivi contratti di lavoro tra le medesime parti» se «in base all’apprezzamento del giudice di merito, vi sia la necessità per il datore di lavoro di verificare, oltre alle qualità professionali, anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione».

L’apposizione di un periodo di prova, in caso di riassunzione del lavoratore, è stata ritenuta illegittima:

  • se l’interessato ha già prestato attività lavorativa come interinale, per un periodo congruo;
  • se è in forza presso l’impresa subentrante in un appalto di servizi, laddove sussista parità di termini, modalità e prestazioni dell’appalto, rispetto al periodo svolto nella precedente realtà;
  • a fronte di mansioni espletate per lungo tempo presso altra società, facente capo tuttavia allo stesso amministratore e svolgente la stessa attività ;
  • se il dipendente, assunto a tempo indeterminato, ha già avuto, con il medesimo datore di lavoro, altri quattro contratti a tempo determinato ;
  • a fronte dell’assunzione a tempo indeterminato di un lavoratore che, in precedenza, ha già ricoperto le stesse mansioni per un congruo lasso di tempo.

NUOVA ROTTAMAZIONE QUATER: IL NUOVO GOVERNO STA STUDIANDO UNA NUOVA PACE FISCALE

Il governo Meloni non è ancora formalmente iniziato ma già si parla di una nuova rottamazione delle cartelle. Ci sono parecchi dossier su cui lavorare, e tra questi ne spiccano due: il primo è quello che riguarda le bollette, servono degli aiuti per mettere un freno ai prezzi di luce e gas. Il secondo riguarda il caro prezzi generalizzato: l’inflazione, fomentata dalla guerra, e i rincari delle materie prime, stanno mettendo a dura prova sia famiglie che imprese.

Per non gravare ulteriormente sulle spalle e sui portafogli dei contribuenti, il governo nascente sta pensando a una rottamazione quater di multe, tasse e contributi. La struttura di questa nuova pace fiscale però sarà diversa, a partire dai soggetti interessati.

Nello specifico, secondo il Sole24Ore si lavora a una rottamazione quater delle cartelle, ma con una formula corretta rispetto alle tre edizioni precedenti, a partire – dai soggetti interessati.

L’obiettivo è di mettere ordine alle diverse sovrapposizioni, innanzitutto pensando ai decaduti, cioè quei contribuenti che hanno aderito alle sanatorie ma poi non hanno rispettato le scadenze previste per i pagamenti. Questa nuova rottamazione quater punta a «sistemare» queste situazioni, una sorta di tabula rasa da cui far ripartire imprese e famiglie in crisi economica.

Ecco quindi che la nuova rottamazione riguarderebbe i carichi affidati alla Riscossione fino al 30 giugno 2022. In questo modo, spiega il giornale di Confindustria, si allargherebbe il raggio d’azione alle cartelle inviate prima del Covid e a quelle successive, arrivando ad abbracciare i debiti con il Fisco emersi anche ora con la crisi energetica.

La rottamazione quater prevede anche di pagare il debito con uno sconto sostanzioso su sanzioni e interessi per quanto riguarda le contestazioni di matrice tributaria. L’obiettivo è arrivare a un forfait del 5%, fermo restando che bisognerà comunque saldare la parte dell’imposta dovuta.

Inoltre, si pensa a modificare il piano dei versamenti, partendo da dieci anni. Tuttavia, per un’operazione del genere servirebbero coperture di cui, in questo momento, non si dispone, e quindi il periodo potrebbe essere dimezzato e non andare oltre i cinque anni.

Tra le varie novità c’è anche un possibile stralcio integrale delle cartelle fino a mille euro. La cancellazione delle cartelle di importo superiore, fino a 3mila euro risulta troppo onerosa.