Archivio mensile Ottobre 26, 2022

CHE COSA E’ IL DANNO DA EVASIONE FISCALE E COME SI CALCOLA?

Il danno da evasione fiscale può essere di tipo patrimoniale  ed anche non patrimoniale come quando deriva da una lesione dell’immagine dell’Amministrazione finanziaria. Questo avviene,, ad esempio, quando si cerca di corrompere un funzionario dell’Agenzia delle Entrate che sta svolgendo un accertamento per conto di un contribuente.

Come tutti i tipi di danno, anche il danno da evasione fiscale deve essere rigorosamente provato nella sua consistenza ed ammontare: quindi, è sempre l’Amministrazione finanziaria che deve dimostrare la sua entità e fornire gli elementi utili per quantificarlo.

Una nuova sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite  ha affermato che la Pubblica Amministrazione danneggiata che chiede il risarcimento non può limitarsi a fare riferimento alla cifra dell’imposta evasa perché il danno da evasione fiscale non è direttamente e univocamente rapportato ad essa. Esistono infatti, altri parametri da considerare per il calcolo, e dipendono dal caso concreto.

La nuova sentenza delle Sezioni Unite riconosce all’Amministrazione danneggiata la possibilità di chiedere il risarcimento sia al pubblico funzionario dipendente, sia a persone esterne all’Amministrazione, che sono state colluse con lui. Perciò il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione derivante da un fatto illecito, quale sicuramente è l’evasione fiscale, può essere arrecato da parecchie categorie di soggetti, non solo pubblici ma anche privati: come chi millanta credito presso un funzionario, un appaltatore di opere pubbliche o un concessionario di pubblici servizi.

Il danno da evasione fiscale non può, invece, ravvisarsi nel semplice inadempimento dell’obbligazione tributaria, cioè nel mancato pagamento delle imposte, neppure quando ciò costituisce reato: il capitale evaso mediante l’omesso versamento delle imposte dovute costituisce, semplicemente, il credito dell’Amministrazione finanziaria, e come tale fonda la sua legittima pretesa di riscossione, anche coattiva, ma non integra di per sé un danno risarcibile.

L’Amministrazione che chiede il risarcimento del danno da evasione fiscale, quindi, andando ben al di là dell’indicazione del tributo evaso, deve sempre provare quali siano stati gli «ulteriori e diversi pregiudizi» che ha subìto nel caso concreto, in modo da dimostrare tutti gli elementi che fondano la richiesta risarcitoria, proprio come avviene per tutti i tipi di danni derivanti da un fatto illecito: lo impone l’art. 1224 del Codice civile, quando sancisce che «al creditore che dimostra di aver subito un danno maggiore spetta l’ulteriore risarcimento».

L’ASSICURAZIONE COPRE I DANNI SE L’AUTO E’ FERMA?

La giurisprudenza ha affermato il principio secondo cui l’assicurazione copre anche quando l’auto è ferma. Ragion per cui, dall’altro lato, essa deve essere assicurata benché non utilizzata e lasciata in un’area di sosta, sia essa pubblica o privata. Il proprietario del veicolo non coperto da RCA risponde pertanto delle relative sanzioni anche in assenza di circolazione. Dovrebbe, per evitare la multa, lasciare il mezzo chiuso in un garage privato, in modo che questo non venga in contatto con altre auto.

La Cassazione ha anche detto che l’assicurazione copre anche quando l’incidente avviene in un’area privata come appunto una strada di campagna o la corte del condominio. Ciò che conta, infatti, non è tanto la natura della strada ma l’uso fatto dal veicolo.

Anche se nel lessico comune le parole «sosta» e «fermata» vengono usate per esprimere lo stesso concetto, c’è una notevole differenza tra i due, almeno ai sensi del Codice della strada.

La fermata è la sospensione della marcia per un breve periodo: si pensi alla fermata dinanzi al semaforo, in coda nel traffico, al casello, a motore acceso in seconda fila. La sosta invece si protrae nel tempo: è in sosta, ad esempio, l’auto parcheggiata a bordo strada durante la notte.

Ai fini assicurativi, però, non vi è alcuna differenza: tanto l’auto in sosta quanto quella ferma sono coperte da assicurazione. Questo significa che se il veicolo subisce un incidente causato da un’altra vettura, l’assicurazione dovrà coprire tutti i danni, sia quelli al mezzo che ad eventuali passeggeri.

Secondo la giurisprudenza, nel concetto di «circolazione» bisogna considerare anche la sosta e la fermata. E ciò anche se nessuno degli occupanti il veicolo sia alla guida.

Il concetto di circolazione stradale, indicato all’articolo 2054 cod. civ., infatti include anche la posizione di arresto del veicolo. Ne consegue che per l’operatività della garanzia per Rca è necessario che il veicolo, si trovi su una strada di uso pubblico o su un’area ad essa parificata.

È facile capire che, se il proprietario del veicolo lascia l’auto in divieto di sosta, in modo che non sia facilmente visibile agli altri veicoli, non potrà poi chiedere l’integrale risarcimento all’assicurazione nel caso in cui venga tamponato: il suo comportamento, se fosse stato prudente e ossequioso delle regole del codice della strada, avrebbe evitato o quantomeno ridotto l’entità del risarcimento.

PUO’ ESSERE REVOCATO L’ASSEGNO DI DIVORZILE IN CASO DI EREDITA’?

Dopo la fine del matrimonio l’ex coniuge privo dei mezzi di sostentamento può chiedere ed ottenere che l’altro gli versi un contributo monetario (periodico oppure una tantum) per raggiungere l’autosufficienza economica.

Attenzione, però, a non confondere l’assegno divorzile con il mantenimento. Quest’ultimo, infatti, può essere riconosciuto solo nel corso della separazione per garantire al coniuge privo di redditi propri il medesimo tenore di vita goduto durante le nozze.

Non esiste una formula per determinare l’importo esatto che può essere riconosciuto all’ex coniuge. Tuttavia esistono dei parametri ben precisi che il giudice deve prendere in considerazione per calcolare l’ammontare dell’assegno divorzile, come i motivi che hanno spinto i coniugi a lasciarsi per sempre, la durata del matrimonio, i redditi sia del marito sia della moglie e, soprattutto, l’apporto personale ed economico fornito da entrambi.

È bene sapere che l’assegno divorzile non è collegato al criterio del tenore di vita  ma ha una natura perequativa, compensativa ed assistenziale. In pratica, serve a garantire i mezzi di sostentamento all’ex coniuge che per vari motivi si trova in difficoltà economica e non è in grado di mantenersi da solo. Ma cosa accade se quando si percepisce l’assegno divorzile si riceve un’eredità da un parente?

In casi del genere, l’ex coniuge obbligato alla corresponsione dell’assegno può rivolgersi al giudice per chiedere una revisione oppure una revoca dell’importo precedentemente stabilito.

In conclusione, la revoca è ammessa se il soggetto obbligato dimostra che, successivamente alla sentenza che ha riconosciuto il diritto all’assegno divorzile, sono sopraggiunti fatti nuovi che hanno determinato un netto miglioramento delle condizioni economiche del beneficiario, come ad esempio una cospicua eredità.

IL CONVIVENTE PUO’ABITARE LA CASA DEL COMPAGNO DEFUNTO?

Quando si parla di conviventi si intende una coppia che non ha formalizzato la propria unione né con il matrimonio (se eterosessuali) né con l’unione civile (se omosessuali), ma ha scelto di vivere come se fosse una coppia sposata.

Tuttavia, la convivenza, per produrre gli effetti previsti dalla legge, deve essere certificata. In pratica, la coppia deve recarsi presso il Comune di residenza e dichiarare di abitare nello stesso appartamento. A questo punto, una volta effettuati i controlli di rito, viene rilasciato un certificato di residenza e lo stato di famiglia.

Coloro che, invece, non vogliono registrare il proprio legame restano una “coppia di fatto” con la conseguenza di non godere di una serie di diritti che vedremo a breve.

Tra i diritti dei conviventi c’è anche quello di continuare ad abitare la casa familiare in caso di morte del partner proprietario dell’immobile. Tale beneficio, valevole anche in presenza degli eredi, è soggetto a dei limiti.

Secondo la legge, infatti, il convivente superstite può restare nella casa:

  • per altri due anni, ma non più di cinque in assenza di figli;
  • per un periodo non inferiore a tre anni in presenza di figli minori o disabili.

Scaduto il termine, l’immobile passa agli eredi del defunto (ad esempio ai figli, ai genitori, ai fratelli, ecc.), i quali possono anche metterlo in vendita. In tal caso, il convivente superstite può essere preferito in caso di più potenziali acquirenti.

Se, invece, la casa familiare è condotta in locazione, in caso di morte di uno dei due conviventi l’altro può succedergli nel contratto.

Il diritto di abitazione, però, viene meno se il superstite cessa di vivere nella casa di Comune residenza oppure se si sposa, inizia una nuova convivenza di fatto oppure contrae unione civile.

Nell’ipotesi in cui l’immobile è di comproprietà, gli eredi del defunto ed il convivente superstite possono accordarsi. Nel senso che una delle parti può versare all’altra la somma necessaria per avere la proprietà esclusiva, oppure si può vendere l’appartamento per poi spartire il ricavato o ancora si può instaurare un rapporto di locazione.

Infine, va precisato che per le coppie che non hanno formalizzato la propria unione dinanzi all’ufficiale di Stato civile del Comune, la giurisprudenza ha riconosciuto che una volta deceduto il partner proprietario della casa, il superstite può restare nell’abitazione solamente il tempo necessario per trovare un’altra sistemazione.

LA RESPONSABILITA’ DEL DATORE DI LAVORO IN CASO DI INFORTUNIO DEL DIPENDENTE

Si definisce infortunio sul lavoro qualsiasi tipo di lesione procurata in ambito lavorativo da un fattore violento in grado di provocare un’inabilità permanente totale o parziale oppure temporanea assoluta. Comporta, in sostanza, l’astensione dall’attività per più di tre giorni.

È fondamentale che sia stato il lavoro a determinare il rischio dell’infortunio, anche se questo avviene fuori orario.

La Cassazione non ha escluso in passato che un infortunio possa presentare i connotati della corresponsabilità .

Questa avviene quando, ad esempio, il datore dice a un dipendente che per fare un determinato lavoro deve mettere i guanti ma non viene ascoltato e il lavoratore si scotta gravemente le mani. Quest’ultimo diventa responsabile di quanto avvenuto. Tuttavia, anche il datore di lavoro è responsabile per non aver controllato che il dipendente indossasse effettivamente i guanti prima di svolgere quella determinata attività.

Più recentemente, però, la Suprema Corte ha stabilito che non esiste questa sorta di concorso di colpa quando il datore non previene ogni rischio legato all’eventuale negligenza o imprudenza dei dipendenti.

Dunque il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio sia quando ometta di adottare le misure protettive, comprese quelle esigibili in relazione al rischio derivante dalla condotta colposa del lavoratore, sia quando, pur avendo adottato le necessarie misure, non vigili affinché queste siano di fatto rispettate da parte del dipendente.

La legge  prevede, in caso di infortunio sul lavoro, una sanzione per l’azienda che ha un interesse o un vantaggio per la mancata predisposizione delle misure di sicurezza in grado di provocare lesioni personali colpose oppure la morte di un lavoratore. Tuttavia, il pubblico ministero deve controllare se prima dell’incidente l’impresa ha predisposto un modello organizzativo e di gestione del rischio conforme alle norme e attuato in modo efficace.

Se il giudice non riesce a provare che l’azienda ha avuto un interesse economico a non rispettare le misure di sicurezza, non è possibile applicare le sanzioni. Deve essere dimostrato dal Pm, in sostanza, che l’imprenditore non ha messo in atto le dovute cautele a tutela dei lavoratori per aumentare il proprio guadagno o il proprio risparmio.

E’ LECITA LA DISOCCUPAZIONE SE SI E’ STATI LICENZIATI PER ASSENZA INGIUSTIFICATA?

La giurisprudenza ci dice che  il sussidio erogato dall’Inps spetta solo nel caso di perdita del posto di lavoro per circostanze diverse dalla propria volontà. Il che significa inequivocabilmente che la disoccupazione spetta essenzialmente in caso di licenziamento.

Inoltre la Naspi viene erogata anche in caso di dimissioni per giusta causa, quando cioè il dipendente è costretto a “licenziarsi” per colpa di una grave inadempienza commessa dal datore di datore di lavoro.

L’assegno di disoccupazione spetta sia in caso di licenziamento per motivi disciplinari (ossia per una grave condotta commessa dal dipendente)   che per licenziamento per motivi economici (ossia per ragioni collegate alla produzione o all’organizzazione aziendale: è il cosiddetto «licenziamento per giustificato motivo oggettivo).

Il licenziamento per motivi disciplinari può avvenire senza preavviso (e in tal caso si parlerà di «licenziamento per giusta causa») o con preavviso («licenziamento per giustificato motivo soggettivo»). La differenza tra le due ipotesi sta nella gravità della condotta commessa dal lavoratore: di massima serietà nel primo caso  e di minore gravità nel secondo.

Il dipendente che non si presenta al lavoro senza fornire una giustificazione commette illecito disciplinare. Di solito i contratti collettivi nazionali stabiliscono l’entità delle sanzioni commisurate ai giorni di assenza ingiustificata. Nei casi più gravi il datore può intimare anche il licenziamento per giusta causa.

Prima del licenziamento, il dipendente riceve però una lettera di contestazione con cui gli viene dato un termine di 5 giorni per presentare difese. Una volta terminato tale termine, il datore di lavoro comunica l’eventuale provvedimento disciplinare.

Se dunque è vero che, nel caso di assenza protratta per più giorni, il dipendente che non va a lavorare può essere licenziato in tronco, è anche vero che questi può, proprio a causa di ciò, ottenere l’assegno di disoccupazione.

Attenzione però: l’assenza ingiustificata viene spesso usata come escamotage per licenziarsi e nello stesso tempo ottenere la disoccupazione. Infatti, seppur nella sostanza la scelta di non recarsi più al lavoro è imputabile al dipendente, l’atto formale del «licenziamento per giusta causa» proviene invece dal datore di lavoro. Ragion per cui si rientra nell’ambito delle ipotesi in cui l’Inps eroga la Naspi.

Proprio per arginare tale fenomeno la Cassazione ha previsto che tutte le volte in cui il dipendente viene licenziato per assenza ingiustificata, l’azienda può chiedergli il risarcimento del danno. L’ammontare del danno viene parametrato alla misura del cosiddetto ticket Naspi, ossia la tassa che l’azienda deve versare allo Stato ogni volta che procede a un licenziamento e che serve a finanziare la Naspi.

IL RISARCIEMENTO AL PASSEGGERO IN CASO DI INCIDENTE

L’articolo 141 del Codice delle assicurazioni sancisce che, in caso di incidente, la lesione deve essere risarcita dalla compagnia del mezzo su cui si trovava il danneggiato al momento del sinistro entro il massimale.
Se il danno supera questo importo, spetterà all’assicurato coprire la parte in eccesso.
Il terzo trasportato, dunque, ha diritto ad ottenere il risarcimento del maggior danno eventuale dalla compagnia di assicurazione nel caso in cui il veicolo che ha causato il sinistro sia coperto per un massimale più elevato di quello minimo.
L’azione diretta per il risarcimento deve essere avanzata all’impresa assicurativa dell’auto su cui viaggiava al momento dell’incidente. La compagnia che paga il risarcimento potrà rivalersi su quella di chi ha avuto la responsabilità accertata dell’incidente.
Nel caso in cui venga accertato un concorso di colpa tra il conducente dell’auto sulla quale si trovava il passeggero e l’altro automobilista, secondo la Cassazione il terzo trasportato ha diritto all’integrale risarcimento e può chiederlo a sua scelta ad una o all’altra compagnia .
Il passeggero non sarà tenuto a dimostrare quale dei due conducenti aveva ragione ma, ai fini di ottenere il risarcimento, dovrà provare che il danno subito è stato provocato dal sinistro.
L’azione diretta per ottenere il risarcimento non può essere avviata di fronte ad un incidente causato da caso fortuito. Come tale, la giurisprudenza ha sempre inteso quell’evento naturale, imprevedibile ed inevitabile non provocato da una condotta umana.
Tuttavia, recentemente la Cassazione ha allargato questo concetto ritenendo caso fortuito alcuni fattori attribuibili a uno dei conducenti, come ad esempio il malore improvviso di uno degli automobilisti coinvolti nell’incidente, purché il soggetto non abbia avuto in passato delle avvisaglie che facessero presumere di potersi sentire male alla guida.
La Suprema Corte ricorda che, se nel sinistro sono coinvolte diverse auto, il passeggero può chiedere il risarcimento del maggior danno alla compagnia di assicurazione del veicolo sul quale si trovava. Il che vuol dire che se un trasportato riporta un danno superiore al massimale minimo, può fare richiesta all’assicurazione per ottenere l’importo massimo.

LA RATEIZZAZIONE DELLE BOLLETTE DI LUCE E GAS

Dato il periodo che stiamo vivendo, esiste la possibilità per le famiglie in difficoltà, di rateizzare le bollette del gas in 10 tranche. Naturalmente senza l’applicazione di interessi. Questa opzione è concessa per le fatture emesse dai fornitori dell’energia tra il primo gennaio e il 30 aprile il 2022.

A fissare regole e contorni di questa opzione ci ha pensato l’Arera, l’Autorità di regolazione per energia, reti e ambiente.

La possibilità di pagare a rate le bollette del gas è riservata ai clienti del servizio di tutela, ma solo a determinate condizioni. Innanzitutto le bollette devono avere un importo maggiore di 50 euro. Dopodiché la bolletta deve contenere un ricalcolo per consumi effettivi ed è superiore al doppio dell’importo più alto fatturato nelle bollette su consumi stimati che l’hanno preceduta.

 Se il maggiore importo è da collegare all’aumento dei consumi per l’entrata in funzione del riscaldamento, il fornitore dell’energia non è obbligato a concedere la rateizzazione.

Via libera, invece, per la rateizzazione delle bollette gas se l’utenza è dotata di contatore accessibile e la bolletta contiene un ricalcolo per consumi effettivi, a causa di una o più mancate letture. Se è stato accertato un malfunzionamento del contatore e la bolletta include il pagamento di consumi non registrati dal contatore stesso.

In ogni caso la possibilità di pagare a rate deve essere indicata nella bolletta rateizzabile o per i clienti titolari di bonus gas morosi, nella comunicazione di costituzione in mora.

Per quanto riguarda il mercato libero stessa opzione, purché il richiedente sia titolare del bonus gas. In tutti gli altri casi bisogna fare riferimento al contratto sottoscritto tra le parti.

Come già detto, il pagamento delle bollette del gas può essere rateizzato per un periodo non superiore a 10 mesi, con il vantaggio della mancata applicazione degli interessi. In questo contesto, i fornitori possano proporre ai propri clienti soluzioni più vantaggiose.

Ecco ad esempio che A2A prevede un rateizzazione mensile fino a 10 rate senza l’applicazione di interessi, con l’importo del primo pagamento da concordare in base alle necessità. Eni gas e luce prevede l’opportunità di chiedere la rateizzazione fino a 18 rate mensili in base all’importo della fattura e senza aspettare la scadenza dei termini.

Facciamo quindi presente come Enel proponga di rateizzare la bolletta se non è scaduta oppure se è scaduta da non più di 30 giorni. La richiesta può essere inoltrata online, dall’area clienti, contattando il servizio clienti al Numero Verde 800.900.800 per i clienti del mercato tutelato e 800.900.860 per i clienti del mercato libero, in uno dei punti Enel. Nessun anticipo è richiesto per la rateizzazione delle bollette Enel gas e luce. La rateizzazione delle Bollette Enel è priva di interessi.

GLI EREDI DEVONO PAGARE I DEBITI DEL DEFUNTO?

L’accettazione dell’eredità da parte degli eredi può avvenire in modo esplicito, ad esempio con un atto pubblico notarile, o anche in modo implicito, ossia tacito, semplicemente immettendosi nel possesso dei beni ereditari.

Ma attenzione: la giurisprudenza afferma che «la qualità di erede non può desumersi dalla mera chiamata all’eredità, non essendo prevista alcuna presunzione in tal senso, ma consegue solo all’accettazione dell’eredità».

Dunque, fino al momento in cui i chiamati all’eredità non avranno effettivamente accettato, i debiti gravanti sull’eredità stessa non si trasferiranno agli eredi. Proprio per evitare di assumere su di sé un patrimonio ereditario contenente debiti è prevista la possibilità di rinunciare all’eredità, così escludendo definitivamente la possibilità di accettazione.

Attraverso l’accettazione dell’eredità gli eredi sono tenuti, in proporzione alle rispettive quote ricevute,  al pagamento dei debiti tributari di qualsiasi tipo lasciati dal defunto: sono, però, escluse le sanzioni, che non si trasferiscono agli eredi.

Rimangono, perciò, dovuti gli importi “base” delle imposte e tasse non versate dalla persona scomparsa mentre era in vita, a meno che questi debiti non siano già andati in prescrizione.

La dichiarazione di successione non è sufficiente per far acquistare la qualità di eredi: è soltanto un adempimento di natura fiscale, che come tale non equivale affatto all’accettazione dell’eredità espressa o tacita.

In questo modo diventa possibile, per chi ha soltanto presentato la dichiarazione di successione ma non ha accettato l’eredità e pertanto non è diventato erede, rifiutarsi di pagare i debiti tributari lasciati dal defunto. Questo importante principio è stato affermato in una recente ordinanza della Cassazione, che ha annullato l’avviso di accertamento notificato al coniuge superstite e al figlio di un contribuente defunto, con il quale si chiedeva il pagamento di alcune annualità della tassa automobilistica su veicoli che erano di sua proprietà.

È previsto, in favore del Fisco, uno strumento utile per rimuovere le situazioni di incertezza e di inerzia e riuscire ad azionare la pretesa impositiva nei confronti degli “aspiranti eredi” che non hanno ancora accettato e, pertanto, non sono divenuti tali. L’Amministrazione finanziaria può chiedere di fissare un termine per l’accettazione dell’eredità da parte dei congiunti del defunto, e può anche far nominare un curatore dell’eredità giacente che nessuno ha reclamato .

CHE COS’E’ E COME FUNZIONA L’ASSICURAZIONE ALL’INTERNO DI UN CONDOMINIO?

L’assicurazione condominiale è una polizza fabbricati stipulata a copertura totale o parziale dei danni che l’edificio può causare a persone o cose, nonché dei danni che vengono causati da persone o da fattori esterni allo stesso fabbricato.

A seconda delle condizioni stabilite nella polizza, questa può coprire i danni causati o i danni provocati all’edificio;

Nel primo caso, la polizza assume i connotati di una comune assicurazione contro i danni mentre, nella seconda ipotesi, si tratta di una vera e propria assicurazione della responsabilità civile, nel senso che la società assicuratrice si impegna a tenere indenne l’assicurato per i danni da questi prodotti.

Tra i danni provocati dall’edificio rientrano invece tutti quelli causati dalla cattiva manutenzione del fabbricato, come ad esempio le tegole che si staccano dal tetto e colpiscono l’auto parcheggiata in strada, oppure il gradino rotto che provoca una caduta.

In tutti questi casi, l’assicurazione interviene per pagare il risarcimento, se il danno verificatosi rientra all’interno della copertura pattuita tra le parti.

È necessario precisare  che l’assicurazione  è valida per tutti i danni riguardanti le parti comuni. In altre parole, a meno che la copertura non si estenda anche alle singole unità immobiliari di proprietà privata, la polizza fabbricati del condominio copre solamente i beni e i servizi comuni, come ad esempio il cortile, l’ascensore, il tetto, ecc.

L’assicurazione condominio funziona come una qualsiasi altra polizza: una volta verificatosi il sinistro, bisogna farne immediatamente denuncia alla propria compagnia, e comunque non oltre il termine di tre giorni, pena il rischio di perdere l’indennizzo o di vederselo diminuito.

La comunicazione va fatta dall’amministratore, il quale rappresenta l’intero condominio e ha sottoscritto la polizza nell’interesse di quest’ultimo.

Tuttavia, nel caso di sua inerzia, deve ritenersi che qualsiasi condomino possa a lui sostituirsi e denunciare formalmente il danno all’assicurazione; ciò perché la giurisprudenza ritiene che, a tutela delle ragioni del condominio, possa agire qualsiasi condomino.

Secondo la giurisprudenza, l’amministratore può procedere alla stipula di una polizza per il condominio solo se autorizzato espressamente dall’assemblea, con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti che rappresenti almeno la metà del valore dell’edificio.

L’amministratore potrebbe procedere a sottoscrivere un’assicurazione condominio senza il previo consenso assembleare solo se ne fosse fatto espresso obbligo all’interno del regolamento.