Archivio mensile Ottobre 3, 2022

COSA SI RISCHIA GUARDANDO STREAMING ILLEGALE?

Sono sempre di più i siti che offrono di guardare canali in abbonamento come Netflix, Prime Video, Dazn, illegalmente.

Tra il 2020 e il 2022, la Guardia di Finanza nel corso dell’operazione “The Net” ha individuato e inibito una serie di nuovi accessi a piattaforme digitali che consentivano la fruizione illegale di contenuti televisivi tramite il sistema IPTV, utilizzate da oltre 500 mila utenti.

Queste piattaforme di streaming illegale, dietro un pagamento mensile di 10 euro al mese, permettevano di accedere a tutti i contenuti di alcune tra le piattaforme di streaming a pagamento più usate e richieste, tra cui Netflix, Sky e Dazn.

Quali sono i rischi in cui incorre chi diffonde illegalmente dei materiali senza scopo di lucro? Ma soprattutto cosa rischia chi guarda i contenuti in streaming sulle piattaforme illegali?

La giurisprudenza non ha previsto una legge che regoli la fruizione di contenuti diffusi illegalmente. Dunque non è possibile definire cosa rischia chi guarda contenuti su una piattaforma di streaming illegale.

Esistono tuttavia diverse opinioni. C’è chi suggerisce che in questi casi si debba applicare lo stesso principio che regola il download di un file protetto da copyright, punito con la confisca del materiale illecito e una sanzione di 154€, che può arrivare fino a 1032€ a seconda della quantità di materiale scaricato. Stando a questa interpretazione, guardare un film in streaming su una piattaforma illegale comporterebbe la stessa sanzione, ma poiché ad oggi non esiste una regolamentazione per l’attività di fruizione di contenuti in streaming, la situazione non è chiara.

Diverso è il caso in cui, anziché limitarsi a guardare un contenuto per uso personale lo si diffonde. In questo caso si incorre nell’azione di diffusione di materiale protetto da copyright che è punita come accade per le piattaforme di streaming. 

La legge distingue la diffusione illegale di opere coperte da copyright:

  • in presenza di scopo di lucro: è prevista la reclusione da sei mesi a tre anni e una multa da €2.582 a €15.493;
  • in assenza di scopo di lucro: si dovrà pagare una sanzione che va da € 51 a € 2.065.

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LA NOVITA’ DELLA LEGGE DI CONVERSIONE DEL DECRETO SOSTEGNI-TER SULLA ROTTAMAZIONE E NOTIFICA DELLE CARTELLE

La legge di conversione del Decreto Sostegni-ter ha previsto la riammissione ai benefici della “Rottamazione-ter” per i contribuenti che non hanno corrisposto, entro lo scorso 9 dicembre 2021 (14 dicembre considerando i 5 giorni di tolleranza, termine fissato dal precedente Decreto Fisco Lavoro n. 146/2021), le rate in scadenza negli anni 2020 e 2021, fissando nuovi termini per il pagamento.

In particolare, i contribuenti che non hanno corrisposto le rate 2020 e 2021, sono riammessi ai benefici della Definizione agevolata versando le somme dovute entro il:

  • 30 aprile 2022 per le rate in scadenza nell’anno 2020 di “Rottamazione-ter”, “Saldo e stralcio” e “Rottamazione UE”;
  • 31 luglio 2022 per le rate in scadenza nell’anno 2021 di “Rottamazione-ter”, “Saldo e stralcio” e “Rottamazione UE”;
  • e per le rate in scadenza nell’anno 2022 (di Rottamazione-ter e Rottamazione UE), il pagamento potrà essere effettuato integralmente entro il 30 novembre 2022.

Anche in questo caso sono previsti i 5 giorni di tolleranza concessi dal Fisco, oltre questo termine o per pagamenti di importi parziali, verranno meno i benefici della definizione agevolata e i versamenti già effettuati saranno considerati a titolo di acconto sulle somme dovute.

Altra novità introdotta riguarda le cartelle di pagamento notificate a partire dal 1° aprile 2022. Per queste ultime torna ad applicarsi il termine ordinario di 60 giorni dalla notifica, per effettuare il pagamento, senza interessi di mora.

È importante sapere che, fino allo scadere del termine dei 60 giorni l’Agenzia delle entrate e riscossione non potrà agire per il recupero del debito.

Altra  novità introdotta con il Decreto Milleproroghe 2022 riguarda i contribuenti con piani di rateizzazione decaduti prima della sospensione dell’attività di riscossione conseguente all’emergenza epidemiologica da Covid-19.

Molti non sanno che, il suddetto provvedimento aveva previsto la possibilità di presentare una nuova richiesta di dilazione entro il 30 aprile 2022, per le somme ancora dovute, senza necessità di saldare le rate scadute del precedente piano di pagamento.

Si ricorda che la decadenza per inadempienza si concretizza a fronte del mancato pagamento di un diverso numero di rate, anche non consecutive, in ragione della data di presentazione dell’istanza, in particolare:

  • per i piani di rateizzazione in essere prima dell’inizio del periodo di sospensione delle attività di riscossione conseguente all’emergenza Covid-19, era stata prevista l’estensione da 10 a 18 del numero di rate che, se non pagate, determinano la decadenza della dilazione concessa,
  • per le rateizzazioni concesse dopo e richieste fino al 31 dicembre 2021, la decadenza si concretizza al mancato pagamento di 10 rate.
  • per le rateizzazioni richieste a partire dal 1° gennaio 2022 la decadenza si verificherà dopo il mancato pagamento di 5 rate, come ordinariamente previsto.

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QUANDO E’ POSSIBILE PROCEDERE AL PIGNORAMENTO DELLA PENSIONE DI REVERSIBILITA’

Sappiamo bene che la pensione, così come lo stipendio, in quanto fonte di sostentamento del debitore e della sua famiglia non può essere pignorata integralmente.

Non solo la pensione di vecchiaia, ma anche altre tipologie di pensione possono essere pignorate.

Per questo motivo è pignorabile anche la pensione di reversibilità, cioè la quota di pensione percepita dal coniuge o dai figli superstiti del pensionato deceduto.

Anche le pensioni di reversibilità sono pignorabili negli stessi termini della pensione diretta, ovvero per un quinto. Se, invece, il familiare superstite rinunci all’eredità, cosa che consente di percepire comunque la pensione di reversibilità, vengono eliminati, in forza della rinuncia, i debiti dell’erede compreso quello gravato da pignoramento.

Da un lato se è vero che con la rinuncia all’eredità non fa perdere il diritto a ricevere la pensione di reversibilità, dall’altro canto è anche vero però che non si subentra nell’obbligo di pagare i creditori del soggetto defunto.

La pensione di reversibilità non può essere paragonata ad un sussidio per poveri o ad un credito alimentare. Inoltre, essa non ha natura successoria, perché spetta anche in caso di rinuncia all’eredità ed è regolata automaticamente da specifiche leggi previdenziali.

Se ci troviamo di fronte al caso di un debitore che percepisce più pensioni di diversa tipologia, in questo caso è possibile pignorare più pensioni, ma sempre rispettando i limiti di legge.

Occorre chiarire, però, che il limite del quinto si calcola per ciascuna pensione.

Invece, il calcolo del minimo vitale impignorabile si effettua sull’importo complessivo dato dalla sommatoria di tutte le pensioni percepite.

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E’ POSSIBILE IMPEDIRE AI CONDOMINI DI AVERE ANIMALI DOMESTICI IN CASA?

In merito alla detenzione di animali in casa, il Codice civile è molto chiaro:

  • quando in un edificio ci sono più di dieci condomini, deve essere fatto un regolamento con norme sull’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese. Il regolamento assembleare deve essere approvato dall’assemblea con il voto della maggioranza assoluta.
  • le norme del regolamento non possono vietare di possedere o detenere animali domestici.

Questo principi è valido solo negli edifici dove il regolamento condominiale è stato approvato a maggioranza dall’assemblea. In questo caso, nessun altro condomino può vietare ad una persona che occupa uno degli appartamenti di avere con sé un cane, un gatto o un altro animale domestico nelle proprie aree di proprietà privata.

Se, invece ci troviamo di fronte ad un condominio in cui vige un regolamento contrattuale, le cose cambiano.

Quando si parla di regolamento contrattuale parliamo di un atto che è stato redatto dal costruttore dell’edificio e poi recepito nell’atto di acquisto di ogni unità immobiliare oppure di un regolamento che è stato approvato all’unanimità (e non a maggioranza) dall’assemblea.

Risulta lecito il divieto di possedere animali domestici contenuto all’interno del regolamento contrattuale se così è stato previsto sin dall’origine ed è stato approvato all’unanimità dall’assemblea.

È importante sapere che il regolamento contrattuale può subire delle modifiche ma sarà sempre necessario il voto all’unanimità e non a maggioranza.

Inoltre, in caso di divieto di possedere animali domestici, il regolamento contrattuale deve precisare in modo chiaro quali sono gli animali vietati in condominio. Potrebbe, ad esempio, stabilire che sono vietati solo i cani perché abbaiano, mentre è lecito avere un gatto.

La giurisprudenza quindi, nello stabilire che non è possibile impedire a un condomino di avere in casa un animale domestico, dice di porre attenzione alla  differenza tra regolamento contrattuale e assembleare. Quest’ultimo non può in alcun modo sancire il divieto.

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OMESSO VERSAMENTO DELLE RITENUTE AL LAVORATORE: COSA RISCHIA IL DATORE DI LAVORO?

L’omesso versamento di ritenute previdenziali consiste,  nella condotta del datore di lavoro che opera le trattenute in busta paga ai propri dipendenti, ma poi non le versa all’Inps entro i brevi termini previsti. In sostanza, il datore di lavoro si mette in tasca i soldi dei contributi prelevati ai propri dipendenti.

Quali sono le sanzioni a carico del datore di lavoro che non versa le ritenute del dipendente?

Fino al 2016 questo comportamento era raffigurato come reato, successivamente si è avuta una depenalizzazione dello stesso.

Oggi infatti, il datore di lavoro che omette le ritenute del dipendente viene punito solo a livello di sanzione amministrativa, e non più penale.

Tuttavia, anche dopo il 2016, il comportamento descritto del latore di lavoro può costituire reato quando l’entità dei versamenti non compiuti supera i €10.000 euro annui.

Parliamo, in questo caso, di reclusione fino a 3 anni e di una multa fino a 1.032 euro.

La sanzione amministrativa, nel caso in cui il debito del datore di lavoro è inferiore a €10.000, va da un minimo di €10.000 ad un massimo di €50.000, a seconda della gravità della violazione, dell’entità dell’evasione contributiva e del numero di lavoratori coinvolti nel fenomeno delle trattenute loro operate ma non versate dal datore di lavoro.

Ricordiamo che, prima del 2016, la sanzione minima era di circa € 17.000, rettificata poi successivamente dall’Inps.

Come può regolarizzare il debito il datore di lavoro?

Il datore di lavoro responsabile dell’omesso versamento di ritenute, dal momento in cui riceve dall’Inps l’avviso di contestazione ed accertamento di tale violazione, può spontaneamente regolarizzare la situazione indebita versando, entro tre mesi dalla notifica dell’atto, le ritenute omesse, e in tal caso non dovrà pagare le sanzioni, ma soltanto gli interessi per il ritardato versamento.

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AUTOTUTELA SOSTITUTIVA POSSIBILE PER VIZI SOSTANZIALI

L’Ordinanza della Corte di cassazione n. 27706 pubblicata il 21 settembre 2022 ha affermato come la nuova emissione dell’atto impositivo può investire la pretesa impositiva nel suo complesso, anche per vizi di natura sostanziale.

Ricordiamo che l’Amministrazione finanziaria ha il potere di sostituire un atto impositivo annullato in precedenza con un nuovo atto, anche di contenuto identico al primo, ma privo dei vizi originari dello stesso.

Uno dei motivi per cui l’autotutela sostitutiva potrebbe non essere valida è che siano trascorsi i termini per il periodo di accertamento (decadenza dell’atto).

È ovvio che la ri-emissione dell’atto impositivo non è vincolata al riscontro di vizi di carattere meramente formale, ma può investire la pretesa impositiva nel suo complesso, anche per vizi di natura sostanziale.

Se non si è formato il giudicato all’atto della notificazione del nuovo atto impositivo e non vi sia decadenza dal potere di accertamento, l’esercizio del potere di autotutela dell’Amministrazione finanziaria è non solo legittimo, ma corrisponde a un preciso potere-dovere della stessa, che ha il diritto di sostituire l’atto annullato con un nuovo atto, ancorché di contenuto identico a quello annullato, privo dei vizi originari dello stesso.

L’esercizio del potere di autotutela non implica la consumazione del potere impositivo, ancorché l’atto originario venga rimosso con effetti retroattivi, rinnovando doverosamente l’amministrazione un proprio atto viziato con l’emanazione di un altro, corretto dai vizi del precedente e sostitutivo del medesimo.

Concludendo possiamo dunque affermare che, la rinnovata emissione dell’atto impositivo non è vincolata al riscontro di vizi di carattere meramente formale, ma può investire la pretesa impositiva nel suo complesso, anche per vizi di natura sostanziale, al fine di soddisfare l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi.

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UN IMMOBILE PUO’ ESSERE CONCESSO IN LOCAZIONE DA CHIUNQUE NE ABBIA DISPONIBILITA’?

Secondo una decisione di merito per la stipula di un contratto di locazione non è necessario che il locatore sia anche il proprietario del bene. Occorre però che questo risulti titolare di un diritto che lo legittimi a disporne concedendolo in godimento ad altri (Trib. Roma, sez. civ. VI, 22 settembre 2020).

Dunque ne consegue che chiunque abbia la disponibilità di fatto di una cosa in base a titolo non contrario a norme di ordine pubblico, può validamente concederla in locazione, in comodato o costituirvi altro rapporto obbligatorio. Allo stesso modo il soggetto in questione è, di conseguenza, legittimato a richiedere la restituzione della cosa qualora il rapporto venga a cessare.

Alla luce di quanto detto, il rapporto di locazione, di natura obbligatoria, spiega i suoi effetti tra i contraenti indipendentemente dall’esistenza o permanenza nel locatore della proprietà della cosa locata. Nel rapporto tra il locatore ed il conduttore, pertanto, il contratto stipulato è valido e vincolante, salva l’ipotesi estrema in cui la detenzione sia stata acquistata illecitamente.

Si tratta, in questo caso, di un rapporto di natura personale, dal momento che non ci si può opporre al locatore usufruttuario del bene (né ai suoi eredi) contestando la mancata titolarità del diritto di proprietà per sottrarsi alle obbligazioni nascenti dal contratto.

Pertanto, il conduttore, convenuto in giudizio per l’adempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto o per la restituzione della cosa oggetto della locazione non può contestare la legittimazione del suo diretto contraente, allegando il trasferimento ad altri della proprietà della cosa.

Secondo la Corte di Appello, la natura personale del rapporto che si instaura tra locatore e locatario consente a chiunque abbia la disponibilità di fatto del bene, in base a titolo non contrario a norme di ordine pubblico, di concederlo validamente in locazione.

In conclusione possiamo affermare che, chiunque abbia la disponibilità, anche di fatto, di un immobile, in base ad un titolo che sia valido, ha il diritto di concederlo in locazione.

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LA NOTIFICA AL FAMILIARE CONVIVENTE PUO’ ESSERE NULLA?

La giurisprudenza prevede la possibilità di effettuare la consegna del documento o della raccomandata  contenente atti e accertamenti fiscali, anche a un soggetto diverso dal destinatario se questi non è materialmente presente al momento dell’arrivo.

La persona a cui viene consegnato l’atto non può essere una persona qualsiasi.

Si può trattare o di una persona di famiglia o comunque convivente, o di una persona che si prende cura della casa (colf o la badante).

Condizione indispensabile è che si tratti sempre di una persona maggiorenne e in grado di intendere e volere.

Quando si parla, però, di familiare convivente non deve trattarsi di una persona legata da una convivenza occasionale e momentanea come nel caso di un ospite di pochi giorni. La convivenza deve essere stabile.

Ovviamente il convivente può rifiutarsi di ritirare il plico per conto altrui, in questo caso l’atto verrà depositato al Comune o all’ufficio postale e al destinatario verrà inviata una comunicazione con l’invito ad effettuare il ritiro entro 30 giorni.

L’invio della raccomandata informativa all’effettivo destinatario è un adempimento essenziale del procedimento di notifica degli atti fiscali .

Senza la prova della ricezione della raccomandata informativa, la notifica dell’atto fiscale effettuata al familiare o al convivente si considera nulla e l’atto non potrà produrre nessun effetto.

L’avviso di accertamento, richiede, anche ove l’atto sia consegnato nelle mani di persona di famiglia, “l’invio della raccomandata informativa quale adempimento essenziale della notifica che sia eseguita dai messi comunali o dai messi speciali autorizzati dall’ufficio delle imposte”.

È dunque possibile affermare che in caso di notifica di un atto fiscale o della riscossione a mani di persona diversa dall’effettivo destinatario, l’onere di dimostrare l’effettiva ricezione dell’atto è in capo all’agente dell’esazione.

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COSA SUCCEDE AL LEGALE CHE VIOLA IL DOVERE DI INFORMARE IL PROPRIO CLIENTE?

La recente giurisprudenza del Consiglio Nazionale Forense ha rammentato che l’obbligo di diligenza da osservare nell’adempimento dell’incarico impone all’avvocato di assolvere, sia all’atto del conferimento dell’incarico che nel corso del suo svolgimento, ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, rappresentando tutte le questioni di fatto e di diritto ostative al raggiungimento del risultato (CNF 34/2021), l’onere della prova della condotta incombe sul professionista, in quanto deve ritenersi insufficiente il rilascio da parte del cliente di procure necessarie all’esercizio dello ius postulandi.

L’art. 27 del Codice di deontologia forense prevede l’obbligo dell’avvocato di informare il cliente anche in ordine ai percorsi alternativi al contenzioso giudiziario, alle iniziative assunte e alle ipotesi di soluzione.

Il Consiglio Nazionale Forense con la sentenza n. 95/2022 conferma la sanzione irrogata all’avvocato, che ha intrapreso arbitrariamente l’azione di merito per responsabilità medica dopo l’ATP anche se la cliente dichiara di aver comunicato la volontà di volersi prendere una “pausa di riflessione “per decidere se proseguire o meno con l’azione giudiziaria. Travalicati in questo modo i limiti del mandato e violato il dovere di informazione che grava sull’avvocato ai sensi dell’art. 27 del Codice di Deontologia Forense. Corretta la sanzione della sospensione dall’attività per un anno.

Una signora presenta un esposto al Coa di Messina e racconta di essersi rivolta a un avvocato per farsi difendere in una causa di malasanità. L’avvocato, a suo dire, ha intrapreso inizialmente una procedura di mediazione e poi una causa civile, anche se la stessa ha conferito mandato al professionista solo in ordine a un accertamento tecnico preventivo.

Al termine dall’istruttoria il Consiglio Distrettuale di Disciplina contesta al legale la violazione degli articoli 9, 10 e 50 del Codice deontologico per aver intrapreso azioni per le quali la cliente non aveva conferito mandato, falsificando a tal fine addirittura la firma della signora e travalicando quanto stabilito nel mandato difensivo.

Il difensore veniva quindi condannato alla sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per la durata di un anno.

L’avvocato nel ricorrere al CNF chiede la riforma della decisione per mancata e completa valutazione delle prove prodotte e per assente volontarietà dell’azione.

Il legale sostiene di aver agito con correttezza perché la procura conferita era generale e non limitata all’accertamento tecnico preventivo. Da qui la legittimazione ad avviare anche la successiva fase di merito. Eccepisce poi il difetto di volontarietà dell’azione, perché non ha introdotto in giudizio, in modo consapevole o inconsapevole, atti falsi, stante il conferimento, come già ribadito, della procura generale.

Il CNF respinge impugnazione dell’avvocato perché infondata.

Provato infatti il rilascio della procura alle liti limitatamente al procedimento di accertamento tecnico preventivo visto che la cliente, dopo il deposito della relazione medica, ha comunicato al difensore di volersi prendere una “pausa di riflessione” per decidere se proseguire o meno l’azione.

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PUO’ UN CONDOMINO, SENZA AUTORIZZAZIONE ASSEMBLEARE, COLLEGARE LO SPAZIO COMUNE CON QUELLO DI SUA PROPIETA’?

Può un condomino praticare un’apertura nel muro comune per mettere in collegamento un suo locale con una parte comune?

Secondo la giurisprudenza il principio della comproprietà dell’intero muro perimetrale comune di un edificio legittima il singolo condomino ad apportare a esso  tutte le modifiche al fine di una peculiare utilità aggiuntiva rispetto a quella goduta dagli altri condomini, a condizione di non impedire agli altri condomini la prosecuzione dell’esercizio dell’uso del muro e di non alterarne la normale destinazione e sempre che tali modificazioni non pregiudichino la stabilità e il decoro architettonico del fabbricato condominiale.

Da questo si evince che i condomini proprietari  delle singole unità immobiliari possono utilizzare i muri comuni, nelle parti ad esse corrispondenti, sempre che l’esercizio di tale facoltà, disciplinata dagli artt. 1102 e 1122 c.c., non pregiudichi la stabilità ed il decoro architettonico del fabbricato (Cass. civ., sez. II, 26/03/2002, n. 4314).

Dunque  l’apertura di varchi e l’installazione di porte o cancellate in un muro ricadente fra le parti comuni dell’edificio condominiale è considerata legittima se si rispettano questi limiti.  

Non si può quindi, sempre parlare di abuso della cosa comune suscettibile di ledere i diritti degli altri condomini. Anzi, anche gli altri inquilini del fabbricato potrebbero fare parimenti uso del muro stesso ai sensi dell’art. 1102 c.c., comma 1.

Ricapitolando, un condomino, nel caso in cui il cortile comune sia munito di recinzione che lo separi dalla sua proprietà esclusiva, può apportare a tale recinzione condominiale, tutte le modifiche che gli consentono di trarre dal bene comune una particolare utilità aggiuntiva. Per fare questo, non è necessario il consenso dell’assemblea condominiale a patto che tale varco non impedisca agli altri condomini di continuare ad utilizzare il cortile.

Contrariamente a quanto detto invece, è sempre da considerarsi vietata, in quanto configurante uso illecito di una cosa comune, l’apertura di una porta sul muro perimetrale di un edificio in condominio per mettere in comunicazione due unità immobiliari appartenenti allo stesso proprietario ma ubicate in due differenti edifici (Cass. civ., sez. II, 19/01/2022, n. 1619).

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