Archivio mensile Settembre 15, 2022

QUANDO SI RISCHIA UNA MULTA PER AVER USATO IL CLACSON

Molti automobilisti hanno il vizio di sfogare il proprio nervosismo in auto suonando il clacson un po’ troppo spesso e dimenticando che, in realtà, l’utilizzo di tale strumento è concesso solo in caso di reale necessità.

L’articolo 156 del codice della strada, infatti, chiarisce espressamente che il clacson può essere utilizzato esclusivamente per fini di sicurezza stradale e con la massima moderazione. La segnalazione acustica, inoltre, deve essere la più breve possibile.

Più precisamente occorre distinguere due casi: quello in cui si stia circolando fuori dai centri abitati da quello in cui si stia circolando all’interno delle città.

Nel primo caso, il nostro ordinamento consente l’utilizzo del clacson ogni volta che le condizioni ambientali o del traffico lo rendano necessario al fine di evitare incidenti, in particolare mentre si è in procinto di eseguire un sorpasso.

Il codice della strada precisa anche che nelle ore notturne o di giorno, in caso di necessità, il predetto fine può essere perseguito azionando a breve intermittenza gli abbaglianti e purché tale operazione non risulti vietata.

All’interno dei centri abitati le cose cambiano e i limiti all’utilizzo del clacson sono ancora più stringenti: le segnalazioni acustiche, infatti, sono vietate salvo i casi di effettivo e immediato pericolo.

Anche in città nelle ore notturne è in alternativa consentito azionare gli abbaglianti a breve intermittenza.

Le conseguenze che si rischia di subire se non si tiene adeguatamente conto di tali disposizioni e si continua ad utilizzare in maniera impropria il clacson (magari solo perché il veicolo fermo al semaforo indugia qualche secondo prima di ripartire) possono essere anche di un certo rilievo: la sanzione amministrativa prevista dal codice della strada per violazione dell’articolo 156, infatti, è quella del pagamento di una somma di importo compreso tra 42 euro e 173 euro.

Senza considerare che in passato certi automobilisti hanno persino subito condanne per disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone (cfr. Pretura di Bobbio 8 novembre 1980; Cass. n. 50379/2018) e per molestie (cfr. Cassazione penale 23 gennaio 1990) proprio perché utilizzavano il clacson in maniera inappropriata.

Resta in ogni caso “salva” l’ipotesi in cui nel veicolo siano trasportati feriti o ammalati gravi: il codice della strada in una simile evenienza è ovviamente più clemente.

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LO SAPEVI CHE LA MARMITTA BUCATA DELLLA TUA AUTO PUO’ CAUSARTI UNA MULTA?

L’Art. 155 Codice della Strada ci precisa come girare con la marmitta bucata può costare fino a 173 euro di multa se si produce troppo rumore.

I primi due commi di tale norma, sanciscono che durante la circolazione vanno evitati tutti i rumori molesti che possono derivare dal modo di guidare i veicoli specialmente se a motore, dal modo in cui è sistemato il carico o da tutti gli altri atti connessi con la circolazione stessa. Inoltre, nei casi in cui è prescritto il dispositivo silenziatore, si deve aver cura di mantenerlo in buone condizioni di efficienza e di non alterarlo.

La sanzione amministrativa prevista è quella del pagamento di una somma compresa tra 42 e 173 euro.

Inoltre, l’Art. 78 Codice della Strada ci dice che, quando il rumore di “marmitta bucata” è prodotto non dall’effettivo guasto del dispositivo, ma dalla sua modifica bisogna fare ancora più attenzione. In questo caso infatti, oltre alla multa per guida rumorosa, il rischio è anche quello di dover pagare una multa, ben più salata, per violazione dell’articolo 78 del codice della strada, che regolamenta le modifiche delle caratteristiche costruttive dei veicoli in circolazione.

Tale norma sanziona con la multa da euro 430 a euro 1.731, tra gli altri, chiunque circoli con un veicolo che risulti modificato rispetto a quanto indicato nel certificato di omologazione o di approvazione e nella carta di circolazione e che non abbia sostenuto le prescritte visita e prova con esito favorevole.

Tali violazioni implicano anche la sanzione amministrativa accessoria del ritiro della carta di circolazione.

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NOTIFICA INESISTENTE DELLE CARTELLE ARRIVATE VIA PEC

In tema di notifica a mezzo pec, l’art. 26 d.p.r. n.602/1973 e l’art. 16-ter d.l. n. 179/2012, convertito in L. n. 221/2012 prevedono che “a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli artt. 4 e 16, comma 12, del presente decreto, ovvero IPA, Reginde, Inipec.”

Secondo la giurisprudenza, la notifica proveniente da un indirizzo non presente in uno dei pubblici registri è quindi da ritenersi nulla ovvero inesistente, per le notifiche a mezzo pec, infatti opera il principio della sanatoria della nullità solo se l’atto ha raggiunto il suo scopo, ex art. 156 comma 3 cpc, mentre la notifica inesistente non è sanabile (Cass. SS.UU. n. 7665/2016)

Sul tema vi è un orientamento giurisprudenziale di legittimità e di merito ormai consolidato secondo cui la notificazione via pec, per considerarsi valida, deve essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante che risulti da pubblici registri (Inipec, Reginde-ipa).

A tal proposito, la Suprema Corte di Cassazione, con l’ordinanza interlocutoria n. 3093/2020 ha confermato il predetto principio, sostenendo che: “la notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi”, precisando, altresì, che l’elencazione dei Pubblici Registri non è esclusiva, ma tassativa e fondata sulla pubblica riconducibilità dell’indirizzo al soggetto. Specificamente , i giudici di legittimità, hanno posto in evidenza, come, in virtù di quanto disposto dall’art. 26, comma 5, del D.P.R. n. 602 del 1973 (in tema di notifica della cartella di pagamento) e dall’art. 60 del D.P.R. n.600 del 1973 (in materia di notificazione dell’avviso di accertamento), il quale, a sua volta, rinvia alle suddette norme sulle notificazioni nel processo civile, ai sensi dell’art. 3-bis della legge 21 gennaio 1994 n.53, la notificazione via pec, per considerarsi valida, deve essere eseguita esclusivamente ricorrendo ad indirizzi PEC risultanti da pubblici elenchi, con espressa indicazione dell’elenco da cui gli stessi indirizzi sono stati estratti, in virtù del combinato disposto dell’art. 3-bis, L.n.53/1994 e dell’art. 16-ter del DL 179/2012 (conv. Dalla legge 221/2012).

Nello stesso senso, i giudici di legittimità si sono espressi con l’ordinanza n. 17346/2019, con cui si è inteso stabilire che ” L’art. 3-bis della legge n.53 del 1994 prevede che “la notificazione con modalità telematica si esegue a mezzo di posta elettronica certificata all’indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. La notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi”.

Ne consegue che, laddove la notifica venga eseguita mediante un indirizzo pec non risultante da pubblici elenchi, questa non potrà che ritenersi ab origine, non valida, in quanto tale, viziata da nullità insanabile (inesistenza).

Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale di legittimità e considerato che il ricorrente ha dato prova che l’indirizzo di posta elettronica certificata usato dall’agenzia delle entrate riscossione non risulta essere quello corrispondente a quello risultante dai pubblici registri, il giudice di pace ha accolto il ricorso condannando l’agenzia delle entrate riscossione alle spese di lite.

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ACQUISTI SU INTERNET: COME COMBATTERE LE TRUFFE?

Ormai sono sempre più frequenti gli acquisti fatti online. A questi segue anche un’esponenziale aumento delle truffe su internet, soprattutto se si compra da siti sconosciuti e poco raccomandabili.

Le truffe su Marketplace più frequenti riguardano la finta vendita di beni che in realtà non vengono mai spediti all’acquirente. Trattandosi molto spesso di pagamenti non tracciabili e non riconducibili all’acquisto di quella compravendita specifica, il soggetto che subisce una truffa spesso ha serie difficoltà nel dimostrare il pagamento.

Pensiamo, ad esempio, a pagamenti effettuati mediante la ricarica di carte prepagate.

Esistono, tuttavia, anche casi dove la situazione si ribalta e il truffatore diventa l’acquirente.

Parliamo di quando, ad esempio, vengono usate finte ricevute di pagamento o di bonifici bancari mai realmente effettuati ma sufficienti per convincere il venditore a inviare il bene senza aver avuto la conferma dell’effettivo accredito della somma richiesta.

Secondo l’art. 640 del Codice penale “chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032”.

Pertanto, tutte le volte che un soggetto riceva il pagamento per un bene da lui poi non consegnato, o nel caso in cui si dia la finta prova dell’avvenuto pagamento, si parla di truffa.

Cosa può fare chi è vittima di una delle truffe per acquisti o vendite online?

La cosa più ovvia da fare è sicuramente sporgere denuncia utilizzando tutte le prove di cui si dispone. Pensiamo al testo dell’annuncio, messaggi scambiati, ricevuta del pagamento.

Sarà opportuno stampare quanto utile a dimostrare le proprie ragioni annotando data, ora e ogni riferimento importante come il numero di cellulare o l’indirizzo web del sito dal quale è stato fatto l’acquisto.

In questi casi non è sempre facile dimostrare la truffa: ad esempio, nel caso in cui nella causale del bonifico non è specificato chiaramente la ragione del pagamento effettuato, non sarà semplice provare la truffa.

È sempre bene, in questi casi, rivolgersi ad un esperto.

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I TERMINI PER CONTESTARE LE CARTELLE ESATTORIALI

A seconda della natura del debito che ci viene notificato attraverso la cartella esattoriale, diversi sono i termini di decadenza oltre i quali non sarà più possibile effettuare una procedura di ricorso.

Se siamo in presenza di una cartella di pagamento riferita a somme aventi natura tributaria, il termine per presentare ricorso innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale competente è di 60 giorni dalla notifica. Trascorso questo termine, la cartella non potrà più essere impugnata dal contribuente.

Se invece si parla di crediti di natura contributiva o assistenziale, il termine per presentare opposizione diventa di:

  • 40 giorni dalla notifica se l’impugnazione si riferisce a vizi sostanziali o di merito. Si fa, in questo caso, riferimento a tutti quei vizi che si riferiscono all’esistenza del credito o all’entità dello stesso. Ne sono un esempio i contributi non dovuti o già versati, o se c’è stato un errato calcolo delle somme dovute.
  • 20 giorni, decorrenti dalla notifica se parliamo di vizi di carattere formale, cioè relativi alla forma dell’atto ed alla sua notifica. Ad esempio se manca l’indicazione del calcolo degli interessi o l’indicazione degli elementi essenziali.

Si consiglia, laddove la cartella esattoriale o l’avviso di addebito riguarda sia vizi di merito che vizi di forma, di presentare opposizione entro il termine di 20 giorni,  dal momento che non esistono delle reali istruzioni dettate dalla Legge.

Quando, invece, il debito riguarda  sanzioni amministrative o di violazione del codice della strada, il termine per proporre opposizione è di 30 giorni dalla notifica della cartella di pagamento.

È sempre bene, quindi, se si deve effettuare un ricorso, informarsi circa i termini per poterlo fare. Trascorso il periodo dato dalla Legge, il contribuente non potrà più impugnare la cartella di pagamento.

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QUANDO LA MULTA PER PASSO CARRABILE E’ NULLA

Per far si che un passo carrabile sia valido al fini legislativi, occorre che il titolare abbia eseguito le corrette procedure per la richiesta del permesso e che sia stato autorizzato ad esporre l’apposito cartello. Ovviamente devono essere rispettati anche i vincoli urbanistici.

Infatti, per avere diritto al permesso di passo carrabile e non permettere quindi a nessuno di parcheggiare un’auto, bisogna chiedere un’autorizzazione al Comune interessato e pagare il relativo canone annuale, la cosiddetta TOSAP (tassa occupazione spazi e aree pubbliche).

Ma quando un cartello di passo carrabile è legale?

Le regole da seguire affinché un cartello di passo carrabile sia valido sono diverse.

Vediamone alcune.

  • deve permettere ad un veicolo la rapida immissione nella proprietà senza ostacolare la circolazione stradale;
  • se l’accesso è destinato anche al traffico pedonale, deve essere prevista una separazione tra l’entrata carrabile e quella pedonale;
  • se l’accesso avviene direttamente dalla strada, il portone o la stanga di ingresso devono essere arretrati in modo da permettere l’attesa di un veicolo fuori dalla carreggiata; 
  • il cartello del passo carrabile non può essere collocato ad un’altezza da terra inferiore a 60 centimetri né superiore a 2,20 metri;
  • il cartello non deve essere posto su elementi mobili come cancelli, porte o catene poiché, nel caso questi  fossero aperti, il cartello non sarebbe visibile;
  • il cartello deve riportare il numero di autorizzazione e l’indicazione dell’anno del rilascio. Se non è stato fornito dal Comune, il cartello non ha validità.

Bisogna inoltre sottolineare che nemmeno il titolare di un passo carrabile può occupare l’area oggetto di divieto di sosta per qualsiasi motivo.

Se uno dei requisiti appena descritti dovesse mancare, il titolare dell’autorizzazione non può pretendere di chiedere la multa per chi ha parcheggiato in quel posto.

Non è possibile multare e nemmeno chiedere la rimozione forzata del veicolo parcheggiato in un posto dove il cartello del passo carrabile, per qualsiasi motivo, non è esposto.

È prevista, inoltre, una sanzione di 159 euro se il cartello esposto è senza autorizzazione.

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COME REAGIRE SE IL COMMERCIANTE NON ACCETTA IL PAGAMENTO CON IL POS?

L’obbligo per i commercianti, artigiani e liberi professionisti di avere il Pos è entrato in vigore da qualche mese ma non mancano, da parte degli esercenti, le scuse per evitare di far effettuare i pagamenti elettronici. Una delle tecniche maggiormente utilizzate è quella di dire che il terminale è guasto oppure che  non c’è linea, oppure che non si accettano pagamenti sotto una certa cifra.

Scuse, ovviamente, che potrebbero essere anche vere.

Dal 30 giugno 2022 sono entrate in vigore le sanzioni per l’esercente che non accetta il pagamento con il Pos. La sanzione, introdotta per combattere il fenomeno dell’evasione fiscale, si aggira intorno ai 30 euro più il 4% della transazione rifiutata dall’esercente.
Ciò dovrebbe servire anche a scoraggiare comportamenti scorretti, soprattutto da parte dei commercianti.

Qual è quindi il comportamento da assumere se ci viene rifiutato il pagamento con il Pos?

Il consiglio per il consumatore è di raccogliere prove qualora viene riferito che la transazione non è andata a buon fine, fotografando, ad esempio, il rifiuto alla cassa.

Successivamente è necessario fare una segnalazione alla Guardia di Finanza o anche soltanto alla Polizia locale.

Tuttavia, a fronte soprattutto del periodo che stiamo vivendo, i consumatori scelgono spesso di assecondare i commercianti inadempienti. Altre volte, però, non si può chiudere un occhio.

Alcune spese possono essere detratte esclusivamente se regolate con mezzi di pagamento tracciabili. Pensiamo alle spese sanitarie, alle spese di iscrizione ad associazioni sportive dilettantistiche o ad attività culturali.

In questi casi, solo pagando con carta o altro metodo elettronico si potrà beneficiare delle agevolazioni IRPEF al 19%.

Come procedere, dunque, se viene rifiutata la carta?

Un consiglio potrebbe essere quello di effettuare un bonifico.

Sulla fattura devono essere indicati gli estremi del pagamento e il termine entro il quale effettuare l’operazione.

In caso di rifiuto anche di questo metodi di pagamento, il consumatore può a sua volta rifiutare di pagare in contanti ed eventualmente segnalare l’episodio alle autorità.

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MERCATO LIBERO O MERCATO DI MAGGIOR TUTELA?

Il mercato libero dell’energia viene ormai visto come una concreta occasione di risparmio per le famiglie italiane che hanno la possibilità di dare un taglio alla bolletta scegliendo le offerte più convenienti disponibili sul mercato libero.

Dal 1999 il mercato dell’energia nel nostro Paese è cambiato radicalmente. Non esiste più un singolo fornitore di energia elettrica e di gas. Nasce la concorrenza che da ai consumatori la possibilità di poter scegliere la soluzione più vantaggiosa e conveniente in base a quelle che sono le proprie esigenze.

Allo scopo di tutelare l’interesse dei consumatori, i fornitori del mercato libero devono obbligatoriamente sottostare ad una serie di norme definite dall’ARERA (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente).

Ma qual è la differenza tra mercato libero e mercato di maggior tutela?

La principale differenza riguarda il modo in cui vengono definite le tariffe dell’energia elettrica e del gas naturale, ossia dei fattori determinati all’interno delle bollette.

Un’altra sostanziale differenza consiste nel fatto che all’interno del  mercato tutelato le tariffe vengono aggiornate ogni trimestre dall’ARERA che ha il compito di comunicare, in misura periodica, i prezzi in base all’andamento del mercato e ad altri fattori inerenti l’energia e il gas.

Proprio per questo motivo i consumatori all’interno del mercato tutelato avranno difficoltà a prevedere l’effettivo andamento delle bollette.

Ciò non avviene all’interno del mercato libero dove il consumatore negozia, con l’accettazione del contratto, le tariffe relative alla fornitura di luce e di gas. Inoltre, in base alla tariffa più conveniente, l’utente può decidere di retrocedere dal proprio contratto senza alcun costo aggiuntivo.

È bene sottolineare che, per quanto concerne gli altri costi, come ad esempio gli oneri di sistema o i costi per le reti, non esistono sostanziali differenze in quanto trattasi di costi fissi da applicare da ciascuna compagnia, sia che si tratti di mercato libero che di mercato di maggior tutela.

Bisogna evidenziare come circa il 40% delle offerte luce del mercato libero garantisce un risparmio rispetto al servizio di Maggior Tutela. Tuttavia, per avere dei risparmi sulla bolletta non basta lasciare il mercato tutelato.

È necessario saper individuare l’offerta giusta tra le tante opzioni presenti sul mercato e bisogna tener conto delle esigenze del consumatore.

Scegliere un’offerta poco conveniente può facilmente portare ad un aumento delle spese anziché ad un risparmio per l’utente.

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COME DIFENDERSI DAI SERVIZI A PAGAMENTO SUL TELEFONO?

Accade spesso ai consumatori di ritrovarsi abbonati inconsapevolmente a servizi a pagamento sul proprio telefono. Al momento dell’arrivo della bolletta del telefono ci si ritrova con un conto telefonico inimmaginabile derivante dal fatto di aver involontariamente aderito a servizi telefonici a pagamento.

La prima cosa da fare in questi casi è quella di segnalare immediatamente il problema al gestore, inviando un reclamo scritto (utilizzando una pec, fax, portale on line, canale dedicato o raccomandata con avviso di ricevimento) per contestare le somme ingiustamente addebitate e richiedere il rimborso, dichiarando esplicitamente di non aver mai richiesto nessun abbonamento.

Se invece, il consumatore ha ricevuto un messaggio che manifestasse l’attivazione dell’abbonamento da parte dell’azienda erogatrice del servizio, si è ancora in tempo.

Il consiglio è quello di procedere ad inviare la richiesta di blocco non solo all’operatore ma anche all’azienda, prima che avvenga l’addebito sul conto telefonico.

Purtroppo con le nuove tecnologie e la presenza dei banner è molto più facile attivare involontariamente servizi a pagamento sul telefono.

È quindi consigliato controllare periodicamente il proprio credito al fine di evitare ulteriori sorprese ed agire in maniera tempestiva.

Al fine di evitate a priori questi problemi, i consumatori possono rivolgersi al proprio operatore e richiedere la non attivazione di servizi onerosi.

Sarà ad ogni modo l’operatore a dover fornire un riscontro: se quest’ultimo risulta essere insoddisfacente, è possibile rivolgersi ad un esperto per essere assistiti al meglio.

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QUANTO E’ CONVENIENTE ACQUISTARE A RATE?

Il consumatore che decide di effettuare un acquisto a rate e quindi di stipulare un finanziamento deve essere informato correttamente circa la stipula dello stesso. Questo perché le conseguenze di un contratto di credito al consumo possono essere molto rilevanti.

I punti a cui fare attenzione quando si decide di effettuare un acquisto in forma rateale sono diversi.

Il primo consiglio è quello di porre maggiore attenzione alla pubblicità.

Nonostante la legge imponga, anche nella fase promozionale, che ci sia una corretta informazione al consumatore, spesso la pubblicità dà informazioni poco chiare tanto da non far capire quanto effettivamente costerà quell’acquisto a rate.

È sempre bene richiedere al punto vendita, prima di firmare l’accettazione del finanziamento, il modulo Secci. Si tratta di un documento che precede il vero e proprio contratto, utile al consumatore per un eventuale confronto con altri preventivi.

È  un modulo standard che in nessun caso può essere modificato. Inoltre, è necessario che  tutti i campi siano compilati in modo chiaro e sintetico.

Il commesso del ponto vendita non può in alcun modo rifiutarsi di consegnare la documentazione. Se ciò avviene, è premura del consumatore insistere: è suo diritto avere anche il contratto prima della firma in modo tale da decidere in maniera consapevole se sottoscriverlo o meno.

Insomma è importante valutare con la dovuta calma il contratto di finanziamento prima di sottoscriverlo.

Un’attenzione fondamentale deve essere data ai tassi di interesse come anche ai costi aggiuntivi ovvero quelli inerenti l’apertura e la gestione della pratica.

Un altro consiglio è quello di porre attenzione a due tassi importanti:

  • il TAN (Tasso  Annuo  Nominale) ovvero il tasso di interesse “puro”.  Esso non comprende spese o commissioni, quindi non dà informazioni su tutti i costi del finanziamento.
  • Il TAEG (Tasso Annuo Effettivo Globale) indica il costo “totale” del finanziamento, perché comprende anche spese e commissioni.

Pertanto la voce principale da considerare è proprio il TAEG. Da questo si può facilmente capire se il finanziamento proposto risulta in linea con le possibilità economiche del contribuente.

Mai fidarsi delle offerte che non mettono in evidenza questi tassi di interesse.

Ma come capire se i tassi d’interesse relativi ad un finanziamento sono realmente convenienti? Il consiglio è quello di verificare se sono in linea con i valori medi del mercato. Ogni tre mesi la Banca d’Italia pubblica la tabella dei “tassi di soglia”  che per legge devono essere esposte sul sito internet delle finanziarie.

Questo passaggio è fondamentale per capire se si tratta di un finanziamento legale e non stiamo parlando di usurai.

È bene sapere che, per annullare un contratto di finanziamento, la normativa sul credito al consumo permette al consumatore di recedere dal contratto entro 14 giorni dalla sottoscrizione del finanziamento.

Dunque è sempre opportuno  valutare in modo informato e consapevole se acquistare o meno a rate un oggetto che ci piace.

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